7
Roland riconobbe subito il vialetto in ripida discesa, sebbene l'ultima volta l'avesse visto sotto un cielo buio di tempesta e molta della sua attenzione fosse stata sviata da quel luminoso taheen volante. Questa volta non c'erano né taheen né altre creature bizzarre. Durante gli anni intercorsi il tetto ad assicella della casa in fondo alla discesa era stato sostituito con una copertura di rame e l'area boscosa subito dietro era diventata un prato, ma il vialetto d'accesso ero lo stesso, con il cartello con la scritta CARA LAUGHS sul lato sinistro e quello con il numero 19 in grande sulla destra. Più avanti ancora c'era il lago, uno scintillio azzurro nella luce forte del pomeriggio.
Dal prato giungeva il belato stridulo di un piccolo motore sotto pressione. Roland guardò Jake e reagì con sgomento al pallore delle sue guance e all'espressione spaventata dei suoi occhi.
«Che cosa c'è?»
«Non è qui, Roland. Né lui, né nessuno della sua famiglia. Solo l'uomo che falcia il prato.»
«Sciocchezze, non potete...» cominciò la signora Tassenbaum.
«Lo so!» le gridò Jake. «Io lo so, signora!»
Roland fissava Jake con orrore e incredulità... ma a causa dello stato d'animo del momento, il ragazzo non seppe interpretare il suo sguardo o non lo colse affatto.
Perché mi stai mentendo, Jake? pensava il pistolero. E, sulla scia di quel pensiero: non mente.
«E se fosse già successo?» domandò Jake e, sì, era preoccupato per King, ma Roland non credeva che quella fosse la sua sola preoccupazione. «Se fosse morto e la sua famiglia non fosse qui perché la polizia ha telefonato e...»
«Non è successo», affermò Roland ma era l'unica cosa di cui si sentiva sicuro. Che cosa sai, Jake e perché non me lo dici?
Non c'era tempo per pensarci adesso.
8
L'uomo con gli occhi blu aveva parlato con calma al ragazzo, ma non sembrava affatto calmo agli occhi di Irene Tassenbaum. E quel coro di voci che aveva notato nel lasciare l'East Stoneham General Store era cambiato. Il canto era ancora dolce, ma non avvertiva ora anche una nota di disperazione? Le sembrava proprio di sì. Un'inflessione di supplica in un registro più alto che le faceva pulsare le tempie.
«Come fai a saperlo?» gridò il ragazzo di nome Jake all'adulto... suo padre, forse. «Come fai a essere così fottutamente sicuro?»
Invece di rispondere alla domanda del ragazzo, l'uomo di nome Roland guardò lei. La signora Tassenbaum si sentì accapponare la pelle.
«Vai giù, sai, di grazia.»
Lei guardò dubbiosa la ripida discesa del vialetto di Cara Laughs. «Se ci vado, potrei non essere capace di riportare su questo vecchio macinino.»
«Dovrai farlo per forza», sentenziò Roland.
9
L'uomo che tagliava l'erba era il servo di King, arguì Roland o comunque il suo omologo in questo mondo. Aveva i capelli bianchi sotto il cappello di paglia ma, gagliardo e con la schiena eretta, portava i suoi anni senza troppa fatica. Quando il pick-up scese per il ripido vialetto che portava alla casa, si fermò con un braccio appoggiato al manubrio della falciatrice. Quando lo sportello si aprì e il pistolero scese, usò l'interruttore per spegnerla. Si tolse anche il cappello... senza essere del tutto cosciente di farlo, pensò Roland. Poi i suoi occhi notarono la pistola al fianco di Roland e si sgranarono abbastanza da far scomparire le zampe di gallina che li ornavano.
«Salve, mister», salutò con diffidenza. Crede che sia un walk-in, pensò Roland. Come la donna.
E lo erano, in un certo senso, lui e Jake; accadeva semplicemente che fossero giunti in un tempo e un luogo dove simili fenomeni erano comuni. E dove il tempo correva.
Roland parlò prima che l'altro potesse proseguire. «Dove sono? Dov'è lui? Stephen King? Parla, uomo e dimmi il vero!»
Il cappello scivolò dalle dita improvvisamente prive di forza del vecchio e cadde ai suoi piedi nell'erba appena tagliata. Gli occhi nocciola fissarono Roland affascinati: l'uccello che guarda il serpente.
«La famiglia è dall'altra parte del lago, alla casa che possiedono di là», rispose. «La vecchia casa Schindler. C'è una festa o qualcosa del genere. Steve ha detto che li raggiunge dopo la sua passeggiata.» E indicò una piccola vettura nera parcheggiata sul prolungamento del vialetto, della quale spuntava solo il muso da dietro la casa.
«Dove sta passeggiando? Se lo sai, dillo a questa signora!»
Il vecchio alzò per un attimo lo sguardo al di là della spalla di Roland, poi tornò a guardare il pistolero. «Sarebbe più facile se vi ci portassi io stesso.»
Roland valutò la sua proposta, ma solo per un istante. Più facile all'inizio, sì. Forse più complicato alla fine, là dove King sarebbe stato salvato o perso. Perché avevano trovato la donna sulla via del ka. Per quanto marginale potesse essere il suo ruolo, era lei che avevano trovato per prima sul Sentiero del Vettore. Il succo era quello. Quanto alle dimensioni della sua parte, meglio era non giudicare in anticipo. Lui e Eddie non avevano creduto forse che John Cullum, incontrato in quello stesso negozio sulla strada a tre ruote a nord di lì, avrebbe avuto un ruolo minore da interpretare nella loro storia? Invece la realtà era stata ben diversa.
Tutto questo attraversò la sua coscienza in meno di un secondo, informazioni (intuizioni, le avrebbe chiamate Eddie) recapitate in un brillante brevi manu mentale.
«No», disse e indicò nuovamente la donna dietro di sé. «Dillo a lei. Ora.»
10
Il ragazzo, Jake, si era abbandonato contro lo schienale con le mani inerti lungo i fianchi. Lo strano cane lo osservava con ansia, ma il ragazzo non lo vedeva. Aveva gli occhi chiusi e sulle prime Irene Tassenbaum credette che avesse perso i sensi.
«Figliolo?... Jake?»
«Ce l'ho», disse il ragazzo senza aprire gli occhi. «Non Stephen King, non riesco a toccare lui, ma quell'altro sì. Devo farlo rallentare. Come faccio a farlo rallentare?»
La signora Tassenbaum aveva ascoltato abbastanza spesso suo marito al lavoro - impegnato in lunghi e sommessi dialoghi con se stesso - da sapere riconoscere una domanda rivolta alla propria persona. Inoltre non aveva idea di chi fosse la persona di cui stava parlando il ragazzo, solo che non era Stephen King. Lasciando così sei miliardi di alternative, in senso planetario.
Ciononostante gli rispose, per il semplice motivo che sapeva che cosa riusciva sempre a rallentare lei.
«Peccato che non abbia bisogno di usare il bagno», disse.
11
Le fragole non sono mature nel Maine, non ancora, ma ci sono i lamponi. Justine Anderson (di Maybrook, New York) ed Elvira Toothaker (la sua amica di Lovell) camminano lungo il ciglio della Route 7 (quella che Elvira chiama ancora la vecchia strada di Fryeburg) con i loro cestini di plastica, a raccogliere i frutti dai cespugli che si estendono per almeno mezzo miglio lungo il vecchio muro di pietra. È stato Garrett McKeen a costruire quel muro cento anni fa ed è al pronipote di Garrett che Roland Deschain di Gilead sta parlando in questo preciso istante. Il ka è una ruota, che tu lo sappia.
Le due donne sono contente della loro ora trascorsa all'aperto, non perché abbiano una particolare passione per i lamponi (Justine probabilmente non assaggerà nemmeno quelli che ha raccolto; i semi le si incastrano tra i denti), ma perché hanno avuto la possibilità di aggiornarsi sulle rispettive famiglie e di ridere un po' insieme degli anni in cui la loro amicizia era novella ed era probabilmente la cosa più importante nella ancor breve vita di entrambe. Si sono conosciute al Vassar College (sembra mille anni fa) e sono state loro a portare la Tradizionale Ghirlanda di Margherite alla cerimonia di consegna dei diplomi quand'erano al terzo anno. Di questo parlavano quando il minivan blu - è un Dodge Caravan del 1985, Justine riconosce marca e modello perché suo figlio maggiore ne ha comprato uno identico quando la sua tribù ha cominciato a crescere - sbuca dalla curva del Melder's German Restaurant e Brathouse. Occupa tutta la strada, sbanda da una parte all'altra, sollevando polvere prima dal ciglio della carreggiata sud, attraversando quindi a zigzag la sede stradale e sollevandone altra dal bordo della carreggiata nord. La seconda volta che lo fa - piombando questa volta su di loro e a un'andatura maledettamente poco rassicurante - Justine pensa che debba inevitabilmente ribaltarsi nel fosso («a tartaruga», dicevano negli anni Quaranta quando lei ed Elvira erano al Vassar), ma il conducente ritrova l'asfalto giusto in tempo.
«Attenta, quello è ubriaco!» esclama Justine allarmata. Tira all'indietro Elvira, ma si trovano la fuga sbarrata dal vecchio muro con il suo rivestimento di cespugli di lampone. I rovi artigliano i calzoni di entrambe (per fortuna nessuna delle due ha messo gli short, penserà in seguito Justine quando avrà tempo per pensare) staccando ciuffetti di tessuto.
Justine sta pensando che dovrebbe prendere l'amica per le spalle e trascinarla con sé oltre il muretto, in una capriola all'indietro come quelle che facevano in palestra tanti anni fa, ma prima che abbia il tempo di decidersi, il minivan blu passa loro accanto e nel breve periodo in cui è alla loro altezza, è pressoché sulla strada e non costituisce un pericolo.
Justine lo guarda proseguire in una bolla di ovattata musica rock. Il cuore le batte forte nel petto e sente sulla lingua il sapore metallico di qualcosa che ha secreto il suo corpo, con tutta probabilità adrenalina. E a metà della salita il minivan blu sbanda di nuovo attraversando la linea bianca. Il conducente corregge la rotta... no, corregge troppo. Di nuovo il pulimmo blu finisce sul ciglio destro, sollevando polvere gialla per cinquanta metri.
«Dio, speriamo che Stephen King veda quel cretino», commenta Elvira. Hanno incrociato lo scrittore mezzo miglio più giù e si sono scambiati un saluto. Probabilmente tutti da quelle parti lo hanno visto in una o l'altra delle sue passeggiate pomeridiane.
Come se il conducente del minivan blu avesse sentito Elvira Toothaker dargli del cretino, gli stop del pullmino si accendono. A un tratto il veicolo abbandona completamente la sede stradale e si ferma. Quando gli sportelli si aprono, le donne sentono un'esplosione improvvisa di musica rock. Sentono anche il conducente gridare a qualcuno (Elvira e Justine provano compassione per la persona che ha avuto la sventura di trovarsi a viaggiare in compagnia di un individuo così in un così bel pomeriggio di giugno). «Guardare e non toccare!» sbraita. «È roba mia, chiaro!» Dopodiché il conducente rientra per metà nel minivan e prende un bastone con il quale si aiuta nello scavalcare il muro di pietra. Mentre lui scompare tra i cespugli, il minivan aspetta ai bordi della strada con il motore acceso, lo sportello del posto di guida aperto, fumi di scarico azzurrognoli che escono da una parte e rock esce dall'altra.
«Ma che cosa sta facendo!» chiede Justine un po' sulle spine.
«Un bisognino, direi», risponde l'amica. «Ma se il signor King è fortunato, magari sta facendo un bisognone. Così potrebbe riuscire a lasciare la Route 7 e imboccare Turtleback Lane in tempo.»
All'improvviso a Justine passa la voglia di raccogliere lamponi. Vuole tornare a casa e farsi una tazza di tè forte.
L'uomo esce zoppicando dai cespugli e usa il bastone per scavalcare di nuovo il muretto.
«Evidentemente non aveva bisogno della Numero Due», commenta Elvira e, mentre il pericoloso automobilista monta sul suo minivan blu, le due donne anzianotte si scambiano un'occhiata e si mettono a ridere.
12
Roland osservò il vecchio che dava le indicazioni del caso alla donna, qualcosa che riguardava Warrington's Road da usare come scorciatoia e fu allora che Jake aprì gli occhi. Ora aveva una brutta cera, sembrava stanco morto.
«Sono riuscito a farlo fermare per una pisciata», disse Jake. «Ora sta sistemando qualcosa sul sedile posteriore. Non so che cos'è, ma non ci metterà molto. Roland, siamo messi male. Siamo in un ritardo spaventoso. Dobbiamo andare.»
Roland guardò la donna sperando di aver preso la decisione giusta nel non volerla sostituire con il vecchio alla guida del pick-up. «Sai dove andare? Hai capito?»
«Sì», rispose lei. «Si prende la Warrington's per la Route 7. Noi qualche volta andiamo a cena al Warrington's. Conosco la strada.»
«Non posso garantire che lo incrociate andando per di là», tenne a precisare il vecchio, «ma direi che è abbastanza probabile.» Si chinò a raccogliere il cappello e cominciò a spazzolare via l'erba tagliata. Lo fece con gesti lunghi e lenti, come trasognato. «Ayuh, mi sembra probabile.»
Quindi, sempre come uno che sta sognando da sveglio, si ficcò il cappello sotto il braccio, si portò il pugno alla fronte e piegò una gamba rivolto allo straniero con la grossa rivoltella al fianco. Perché non avrebbe dovuto?
Il forestiero era avvolto da una luce bianca.
13
Quando Roland si issò nuovamente nella cabina del camioncino del negoziante - una manovra resa più difficile dal dolore che sempre più rapidamente gli divorava l'anca destra - abbassò la mano sulla gamba di Jake e fu in quel modo che seppe che cosa Jake gli stava nascondendo e perché. Aveva temuto che sapendolo, la sua attenzione ne fosse dirottata. Non era ka-shume quello che provava il ragazzo, altrimenti lo avrebbe sentito anche Roland. Come poteva esserci ka-shume tra loro, quando il tet era ormai spezzato? Il loro potere speciale, qualcosa di più grande di tutti loro, catalizzato forse dal vettore stesso, non c'era più. Ora erano solo tre amici (quattro, volendo contare il bimbolo) uniti da un proposito comune. E potevano salvare King. Jake lo sapeva. Potevano salvare lo scrittore e così facendo avvicinarsi di un passo alla salvezza della Torre. Ma uno di loro sarebbe morto nell'impresa.
Jake sapeva anche quello.
14
Sovvenne a Roland in quel momento un'antica massima che gli aveva insegnato suo padre: Se così dice il ka, che così sia. Sì, giusto: che così sia.
Nei lunghi anni che aveva trascorso all'inseguimento dell'uomo in nero, il pistolero avrebbe giurato che nulla al mondo lo avrebbe indotto a rinunciare alla Torre. Non aveva forse ucciso letteralmente sua madre per essa, ancora agli albori della sua terribile avventura? Ma in quegli anni era stato senza amici, senza figli, e (non gli andava ammetterlo, ma era vero) senza cuore. Era stato stregato da quella sterile romanticheria che i senza amore scambiano per amore. Ora aveva un figlio e gli era stata concessa una seconda possibilità ed era cambiato. Sapere che uno di loro doveva morire per salvare lo scrittore - che la loro fratellanza doveva essere vieppiù ridotta e così presto - non lo avrebbe spinto a desistere. Ma avrebbe fatto in modo che questa volta a essere sacrificato fosse Roland di Gilead e non Jake di New York.
Sapeva il ragazzo che aveva scoperto il suo segreto? Ma ora non c'era tempo per quello.
Roland chiuse bruscamente lo sportello dell'autocarrozzone e guardò la donna. «Il tuo nome è Irene?» chiese.
Lei annuì. «Guida, Irene. Fallo come se ti braccasse il Gran Signore dal Piede Caprino con l'intenzione di violentarti, io prego. A Warrington's Road. Se non lo troviamo lì, sulla Route 7. Vuoi andare?»
«Ma sicuro, checcazzo!» disse la signora Tassenbaum e ingranò la prima con assoluta autorità.
Il motore strillò, ma il pick-up cominciò a scivolare all'indietro, come se fosse così spaventato da quel che aveva davanti che preferiva finire nel lago. Poi la Tassenbaum lasciò il pedale della frizione e il vecchio International Harvester balzò in avanti, aggredendo la ripida salita del vialetto e lasciando dietro di sé fumo blu e gomma bruciata.
Il pronipote di Garrett McKeen li guardò andare a bocca aperta. Non aveva idea di che cosa fosse appena accaduto, ma era sicuro che moltissimo dipendeva da quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Forse tutto.
15
Dover pisciare da non riuscire a trattenerla era molto strano, perché pisciare è stata l'ultima cosa che Bryan Smith ha fatto prima di lasciare il Million Dollar Campground. E dopo che ha scavalcato quel cazzo di muretto di pietra, non è riuscito a spremersi che poche gocce, quando al momento gli sembrava che la vescica stesse per scoppiare. Bryan spera di non avere qualche guaio con la prostata; guai alla vecchia prostata, è l'ultima cosa di cui ha bisogno. Ha già abbastanza problemi così, per Gesù Santissimo.
Oh be', ora che si è fermato può approfittarne per cercare di sistemare meglio il frigo sul sedile posteriore: i cani se lo stanno ancora rimirando con la lingua fuori. Cerca di infilarlo sotto il sedile, ma non ci sta, non c'è abbastanza spazio. Punta invece il dito sporco ai suoi rottweiler e ripete loro di lasciar stare il suo frigo e la carne c'è dentro, che è sua, che intende mangiarsela per cena. Questa volta gli viene persino in mente di aggiungere la promessa che più tardi, se fanno i bravi, aggiungerà un po' di carne da hamburger nella loro Purina. È sicuramente una bella pensata per uno come Bryan Smith, ma il semplice espediente di trasferire il frigo portatile dal sedile posteriore a quello anteriore dove, accanto a lui, c'è tutto lo spazio che vuole, non gli passa neppure per l'anticamera del cervello.
«Lasciatelo stare!» dice di nuovo ai cani e si rimette al volante. Sbatte la portiera, dà un'occhiata nello specchietto retrovisore, vede due signore anziane là in fondo (non le aveva notate prima perché quando le aveva sorpassate non stava proprio guardando la strada), spedisce loro un saluto che non possono vedere attraverso il sudiciume del lunotto posteriore e riparte. Adesso la radio sta suonando Gangsta Dream 19, di Owt-Ray-Juss, e Bryan alza il volume (sterzando di nuovo, attraversando la linea bianca e invadendo di nuovo la carreggiata opposta: è quel tipo di persona che semplicemente non è capace di maneggiare la radio senza guardarla). Viva il rap! Evviva il metal! Adesso, per completare la giornata, gli manca solo un pezzo di Ozzie. Crazy Train andrebbe bene.
E un po' di quei Mars.
16
La signora Tassenbaum si catapultò dal vialetto di Cara Laughs in Turtleback Lane in seconda, con il motore del vecchio pick-up fuori giri (ci fosse stato un contagiri sul cruscotto, l'ago sarebbe arrivato sicuramente nella zona rossa), e i pochi utensili che ballavano all'impazzata sul fondo arrugginito del cassone.
Roland era dotato solo di un minimo di tocco - poca cosa a confronto di quello di Jake - ma aveva incontrato Stephen King e lo aveva indotto al falso sonno dell'ipnosi. Da quella esperienza aveva avuto origine un legame potente, così non si meravigliò del tutto quando toccò la mente con cui non era riuscito a entrare in contatto. Probabilmente era stato d'aiuto il fatto che King stesse pensando a loro.
Lo fa spesso durante le sue passeggiate, pensò Roland. Quando è solo sente la canzone della Tartaruga e sa che ha un lavoro da fare. Uno che sta evitando. Be', amico mio, con oggi è finita.
Se, naturalmente, fossero riusciti a salvarlo.
Si sporse davanti a Jake per guardare la donna. «Puoi far andare un po' più veloce questo coso maledetto dagli dei?»
«Sì», rispose lei. «Credo di sì.» Poi si rivolse a Jake: «Sai davvero leggere le menti, figliolo, o è solo un giochetto tra te e il tuo amico?»
«Non posso leggerle, non proprio, ma posso toccarle.»
«E spero con tutto il cuore che sia vero», ribatté lei, «perché tutta Turtleback è un saliscendi e in alcuni punti ci passa una macchina sola. Se senti che c'è qualcuno che sta arrivando dall'altra parte, me lo devi dire.»
«Va bene.»
«Perfetto», si felicitò Irene Tassenbaum. Scoprì i denti in un'espressione feroce. Basta, non c'erano più dubbi: era la cosa più bella che le fosse mai successa. La più emozionante. Ora oltre a sentire il canto delle voci, vedeva facce tra le foglie degli alberi ai lati della strada, come se fossero osservati da una moltitudine. Sentì crescere intorno a sé una forza terrificante e fu invasa da un'improvvisa, vertiginosa certezza: se avesse schiacciato a tavoletta il pedale del gas del vecchio pick-up di Chip McAvoy, avrebbe superato la velocità della luce. Alimentato dall'energia che avvertiva tutt'intorno, avrebbe viaggiato più veloce del tempo stesso.
Be', vediamo un po', concluse. Sterzò per portarsi al centro di Turtleback Lane, poi schiacciò la frizione e cambiò in terza. Il vecchio camioncino non andò più veloce della luce e non superò il tempo, ma l'ago del tachimetro salì fino a cinquanta... e oltre. Il pick-up superò un dosso e, quando cominciò a scendere sull'altro versante, per breve tempo filò sospeso nell'aria.
Irene Tassenbaum gridò di eccitazione.
17
Stephen King fa due passeggiate, quella corta e quella lunga. Quella corta lo porta all'incrocio di Warrington's Road con la Route 7, quindi di ritorno fino a casa, Cara Laughs, per lo stesso percorso a ritroso. Sono tre miglia. La passeggiata lunga (lui la chiama «La lunga marcia», che guarda caso è anche il titolo di un libro che ha scritto sotto il nome di Bachman quando ancora il mondo non era andato avanti), lo porta oltre l'incrocio con la Warrington's e sulla Route 7 fino a Slab City Road; da lì torna sui suoi passi sulla Route 7 fino a Berry Hill, aggirando così Warrington's Road. Questo percorso lo riporta a casa dall'estremità nord di Turtleback Lane. È quello che ha in mente per oggi, ma quando torna all'incrocio della 7 con la Warrington's, si ferma baloccandosi con l'idea di prendere la via breve. Procede sempre con molta attenzione sul ciglio della strada pubblica, anche se sulla Route 7 il traffico è sempre scarso anche in estate, l'unico periodo in cui diventa intenso è per la Fiera di Fryeburg, che comincerà solo nella prima settimana di ottobre. Comunque la visuale è delle migliori. Se dovesse sopraggiungere un automobilista poco esperto (o ubriaco) lo si scorge generalmente già a mezzo miglio di distanza, perciò si ha tutto il tempo di mettersi al riparo. C'è un solo dosso cieco, ed è quello appena oltre l'incrocio con la Warrington's. D'altra parte quello è anche un dosso aerobico, di quelli che obbligano il vecchio cuore a pompare il sangue come si deve, e non è ben questo lo scopo di tutte quelle stupide camminate? Migliorare quella che i telesapientoni chiamano «salute del cuore»? Ha smesso di bere, ha smesso di farsi, ha quasi smesso di fumare, fa esercizio fisico. Che cos'altro vuoi?
C'è lo stesso una vocina che gli parla. Togliti dalla strada, gli dice. Torna a casa. Avrai un'ora a disposizione prima di raggiungere gli altri alla festa dall'altra parte del lago. Puoi lavorare un po'. Magari cominciare il prossimo episodio della Torre Nera; è da un po' che ti frulla in testa.
Aye, è vero, ma ha già una storia su cui lavorare e gli piace parecchio. Tornare a quella della Torre significa nuotare in acque profonde. Finendo magari annegato. Ciononostante, mentre indugia all'incrocio, si rende improvvisamente conto che se tornasse a casa in anticipo ci si metterebbe sul serio. Non riuscirebbe a evitarlo. Sarebbe costretto ad ascoltare quella a cui ha dato qualche volta il nome di Ves'-Ka Gan, la canzone della Tartaruga (e che altre volte chiama «La canzone di Susannah»). Butterà via la storia a cui sta lavorando ora, volterà le spalle alla sicurezza della terra ferma e si tufferà di nuovo nelle acque tenebrose. Lo ha già fatto quattro volte, ma adesso dovrà nuotare fino all'altra sponda.
Nuotare o annegare.
«No», dice. Parla a voce alta, ma non c'è niente di male, non c'è nessuno in giro. Percepisce, lontano, il rumore attenuato di un veicolo in arrivo - o sono due! Uno sulla Route 7 e uno sulla Warrington's Road? - ma nient'altro.
«No», ripete. «Continuo a camminare e poi vado al party. Oggi non si scrive. Meno che mai quella storia.»
Così, superato l'incrocio, comincia a salire il dosso con la visuale ridotta. Comincia a camminare verso il rumore del Dodge Caravan in arrivo, che è anche il rumore della sua morte in arrivo. Il ka del mondo razionale lo vuole morto; quello del Prim lo vuole vivo e vuole che canti la sua canzone. Accade così che in quel pomeriggio soleggiato nel Maine occidentale, la forza irresistibile corre incontro all'oggetto inamovibile, e per la prima dal recedere del Prim, tutti i mondi e tutta l'esistenza si rivolgono alla Torre Nera che si erge all'estremità del Can'-Ka No Rey, che significa i Rossi Campi del Nulla. Persino il Re Rosso sospende le sue grida rabbiose. Perché sarà la Torre Nera a decidere.
«La risoluzione esige un sacrificio», dice King e, sebbene a sentirlo ci siano solo gli uccelli e lui stesso non abbia idea di che cosa significhi, non ne è turbato. Mormora sempre tra sé e sé, è come se avesse nella testa una Grotta delle Voci, un antro pieno di imitatori brillanti... ma non necessariamente intelligenti.
Cammina, oscillando le braccia di fianco ai blue jeans, ignaro che il suo cuore sta
(non sta)
finendo i suoi ultimi battiti, che la sua mente sta
(non sta)
pensando i suoi ultimi pensieri, che le sue voci stanno
(non stanno)
emettendo le loro ultime sentenze delfiche.
«Ves'-Ka Gan», dice, divertito dal suono di quel nome... e anche affascinato. Ha promesso a se stesso che non cercherà di farcire le sue fantasie sulla Torre Nera con parole impronunciabili in qualche linguaggio inventato (per non dire incasinato) - se ci prova, il suo editor, Chuck Verrill di New York, gli segherà bellamente quasi tutto - ma nella sua mente si affollano lo stesso parole e frasi di quel genere: ka, ka-tet, sai, soh, can-toi (almeno questa c'era già in un altro suo libro, Desperation), taheen. Quanto manca a Cirith Ungol di Tolkien e a Nyarlathotep, il dio pazzo e cieco di H.P. Lovecraft?
Ride, poi intona una canzone che gli ha regalato una delle sue voci. E quasi sicuro che la userà nel prossimo libro delle avventure del pistolero, quando restituirà finalmente la voce alla Tartaruga. «Commala-come-ola», canta camminando, «un uomo ha la pistola. Ha perso la sua amata e non piange lei sola.»
E chi è che piange, magari Eddie Dean? O forse Jake Chambers?
«Eddie», esclamai «Eddie è l'innamorato derubato.» È così immerso nei pensieri che non vede subito il tetto del Dodge Caravan blu che spunta dal ristretto orizzonte che ha davanti e così non si rende conto che il veicolo non è affatto sulla sede stradale, ma sta procedendo sul ciglio dove cammina anche lui. Né sente il rombo del pick-up che sopraggiunge dietro di lui.
18
Bryan sente il frusciare del coperchio del frigo nonostante l'assordante ritmo funky della radio, e quando guarda nello specchietto retrovisore, vede tra sgomento e indignazione, che Bullet, sempre il più intraprendente dei due rottweiler, è balzato dal vano bagagli oltre lo schienale del sedile posteriore. Con le zampe posteriori puntate sul sedile sporco e scuotendo felice il mozzicone di coda, ha infilato il muso nel frigo di Bryan.
A questo punto un conducente con un minimo di raziocinio accosterebbe, fermerebbe il veicolo e si occuperebbe della bestia disubbidiente. Ma Bryan Smith non ha mai ottenuto voti alti in raziocinio quando si siede al volante e ci sono i suoi precedenti a provarlo. Invece di accostare, si gira sul lato destro, sterzando con la mano sinistra e spingendo inutilmente la testa piatta del rottweiler con la destra.
«Lascia stare!» grida a Bullet mentre il minivan prima piega verso il ciglio destro, quindi ci monta sopra. «Mi hai sentito, Bullet! Sei deficiente? Lascia stare!» Riesce anche a far rialzare la testa al cane per un momento, ma non c'è pelo da stringere tra le dita e Bullet non sarà un genio, ma è abbastanza intelligente da sapere di avere almeno un'occasione ancora per arraffare la roba che c'è nella carta bianca, la roba che emana quell'inebriante odore rosso. Infila la testa sotto la mano di Bryan e chiude i denti sull'involto.
«Mollalo!» grida Bryan. «Mollalo ho detto... SUBITO!»
Per potersi torcere ancora di più sul sedile di guida spinge forte con entrambi i piedi. Purtroppo uno è sul pedale dall'acceleratore. Il pullmino si avventa all'improvviso verso la cima del dosso. In questo momento, preso dal furore, Bryan ha completamente dimenticato dove si trova (sulla Route 7 a Lovell) e che cosa dovrebbe fare (guidare un minivan). In questo momento pensa solo a recuperare l'involto di carne dalle fauci di Bullet.
«Dammelo!» grida tirando. Scodinzolando più energicamente che mai (adesso non è più solo un pasto ma è anche un gioco) Bullet tira dall'altra parte. La carta del macellaio si strappa. Ormai il minivan è completamente uscito di strada. Poco più avanti c'è una macchia di grandi pini illuminata dalla bella luce del pomeriggio: una chiazza di verde e oro. Bryan pensa solo alla carne. Non si sogna nemmeno di mangiare hamburger intrisi di bava di cane.
«Dammi quii» dice e non vede l'uomo che si trova sulla rotta del suo veicolo, non vede il pick-up che è apparso ora subito dietro l'uomo, non vede la porta del passeggero del pick-up che si apre e neppure l'allampanato cowboy dai capelli lunghi che salta giù, perdendo nel balzo la rivoltella con il grosso calcio giallo, scalzata dalla fondina appesa al fianco; il mondo di Bryan Smith si è ristretto su un cane molto disubbidiente e un pacchetto di carne. Nella lotta per la carne, sulla carta del macellaio sbocciano rose rosse come tatuaggi.
19
«Eccolo!» gridò il ragazzo di nome Jake, ma Irene Tassenbaum non aveva bisogno di sentirselo dire. Stephen King indossava jeans, una camicia da lavoro di batista e un berretto da baseball. Era ben oltre il punto in cui la strada per il Warrington's incrocia la Route 7, a un quarto circa della salita.
Irene schiacciò la frizione, scalò in seconda come un pilota NASCAR che vede sventolare la bandiera a scacchi, poi sterzò bruscamente a sinistra stringendo il volante con entrambe le mani. Il pick-up di Chip McAvoy s'inclinò, ma resistette. Irene vide il luccichio riflesso da un veicolo che spuntava dall'altra direzione in cima al dosso. King stava salendo. Udì l'uomo seduto vicino allo sportello gridare: «Raggiungilo e fermati dietro di lui!»
Irene Tassenbaum ubbidì, anche se ora vedeva che il veicolo in arrivo dalla direzione opposta non marciava sul fondo stradale ed era destinato a finirle addosso. Per non parlare di Stephen King, che sarebbe rimasto schiacciato in un sandwich.
Lo sportello si spalancò e quello di nome Roland balzò giù dal pick-up lanciandosi fuori.
Dopodiché tutto avvenne molto, molto velocemente.
2
Ves'-Ka Gan
1
Ciò che avvenne fu di una semplicità letale: Roland fu tradito dall'anca malata. Cadde in ginocchio con un grido di rabbia, dolore e sgomento. Poi la visuale gli fu oscurata da Jake che lo scavalcava con un balzo senza rallentare per un solo momento. Dalla cabina del pick-up Oy abbaiava come un pazzo. «Eik-Eik! Eik-Eik!»
«No, Jake!» urlò Roland. Vide tutto con terrificante chiarezza. Il ragazzo afferrò lo scrittore per la vita un attimo prima che il veicolo blu - non era né un camion né un'automobile, bensì una specie di incrocio tra i due - piombava su di loro in un boato di musica distorta.
Jake ruotò King verso sinistra, facendogli scudo con il proprio corpo, e fu così che il veicolo colpì il ragazzo. Dietro il pistolero, che ora era in ginocchio con le mani rosse di sangue calcate nella terra, la donna del negozio gridò.
«NO, JAKE!» tuonò di nuovo Roland, ma era troppo tardi. Il ragazzo che per lui era un figlio scomparve sotto il veicolo blu. Il pistolero vide alzarsi una piccola mano - non l'avrebbe mai dimenticato - poi sparì anche quella. King, urtato prima da Jake e poi dal peso del pullmino dietro Jake, fu scaraventato al bordo della macchia di pini, con un volo di tre metri. Cadde sul lato destro e cozzò la testa su un sasso in un urto così violento da fargli saltar via il berretto. Allora rotolò su se stesso, forse con l'intenzione di tentare di rimettersi in piedi. O forse non avendo intenzioni di sorta: lo choc gli aveva spento totalmente la luce degli occhi.
Il conducente sterzò e il veicolo transitò alla sinistra di Roland, mancandolo per qualche centimetro e riempiendogli la faccia di polvere invece di travolgerlo. Ormai stava rallentando, forse perché il conducente aveva cominciato a frenare quando era troppo tardi. Sfregò il cofano del pick-up con la fiancata e questo lo rallentò ancora di più, ma ancora non aveva finito di far danno. Prima colpì di nuovo King, questa volta mentre era steso a terra. Roland sentì lo schianto di un osso che si spezzava. Fu seguito dal grido di dolore dello scrittore. E in quel momento Roland capì l'origine del dolore all'anca, vero? Non era mai stato agra secca, o non del tutto. Era stato un precursore.
Si rialzò, solo marginalmente conscio che il proprio dolore era scomparso del tutto. Guardò il corpo innaturalmente ripiegato di Stephen King sotto la ruota anteriore sinistra del veicolo blu e pensò: Bene! con ferocia istintiva. Bene! Se qui ha da morire qualcuno, muori tu! Al diavolo l'ombelico di Gan, al diavolo le storie che ne escono fuori, al diavolo la Torre, muori tu e non il mio ragazzo!
Il bimbolo gli passò accanto al galoppo precipitandosi là dove Jake giaceva supino dietro il minivan che gli soffiava gas di scarico azzurri negli occhi aperti. Oy non esitò; afferrò con i denti la sacca di Oriza ancora appesa alla spalla di Jake e se ne servì per trascinare via il ragazzo dal veicolo, centimetro dopo centimetro, scalzando polvere da sotto le zampe corte e muscolose. Jake perdeva sangue dalle orecchie e dagli angoli della bocca. I tacchi delle sue sabotte tracciarono due strisce come un binario nella terra e negli aghi di pino appassiti.
Barcollando, Roland raggiunse Jake e cadde in ginocchio al suo fianco. Il suo primo pensiero fu che il ragazzo se la fosse comunque cavata. Aveva le membra dritte, grazie a tutti gli dei, e il segno che gli attraversava il naso e gli scendeva per una guancia imberbe era di olio con scagli di ruggine, non di sangue come aveva temuto in un primo momento. C'era sì del sangue che gli usciva dalle orecchie, e sangue che gli usciva anche dalla bocca, ma quest'ultima emorragia poteva essere stata provocata da un taglio all'interno della bocca o...
«Vai a vedere lo scrittore», disse Jake. La sua voce era calma, per nulla contratta dal dolore. Nemmeno fossero stati seduti intorno a un piccolo fuoco da bivacco dopo una giornata di viaggio ad aspettare quella che Eddie chiamava pappa... o, quand'era particolarmente di buonumore (come accadeva spesso), «poppa».
«Lo scrittore può aspettare», ribatté brusco Roland pensando: Mi è stata concessa una grazia. Un miracolo dovuto all'elasticità di un corpo non ancora completamente formato e alla morbidezza del terreno che ha ceduto sotto di lui quando è stato investito dall'autocarrozzone di quel bastardo.
«No», disse Jake. «Non può.» E quando si mosse cercando di alzarsi, la camicia gli aderì un po' di più al torace e Roland vide l'orribile cavità. Altro sangue uscì in un fiotto dalla bocca di Jake e quando cercò di parlare di nuovo, cominciò invece a tossire. Roland sentì il proprio cuore torcersi come uno straccio strizzato ed ebbe un momento per chiedersi come fosse possibile che continuasse a battere di fronte a uno spettacolo così tremendo.
Oy emise un grido lamentoso, il nome di Jake espresso in un mezzo ululato che fece drizzare i peli sulle braccia di Roland.
«Non cercare di parlare», gli raccomandò. «Potresti avere qualche lesione interna. Una costola spezzata, magari due.»
Jake girò la testa di lato. Sputò un fiotto di sangue, parte del quale gli scivolò per la guancia come tabacco masticato, e chiuse le dita intorno al polso di Roland. La sua stretta fu salda; lo fu anche la sua voce, ogni parola scandita.
«Ci sono solo lesioni. Questa è la morte, so che cos'è perché ci sono già passato.» Quello che disse poi fu la frase a cui stava pensando Roland poco prima che partissero alla volta di Cara Laughs: «Se il ka dice così, che così sia. Occupati dell'uomo che siamo venuti a salvare!»
Impossibile sottrarsi all'imperativo negli occhi e nella voce del ragazzo. Era avvenuto, ormai, il Ka del Diciannove si era compiuto fino alla sua conclusione. Eccetto, forse, che per King. L'uomo che erano venuti a salvare. Quanto del loro destino era scaturito dalla punta delle sue mobili dita macchiate dal tabacco? Tutto? Una parte? Questa?
Quale che fosse la risposta, Roland avrebbe potuto ucciderlo a mani nude là dov'era, imprigionato sotto la macchina che lo aveva investito, e a nulla importava che non fosse stato King al volante del minivan; se avesse fatto quello che il ka gli aveva indicato di fare, non si sarebbe trovato lì all'appuntamento con quell'idiota e il petto di Jake non avrebbe avuto quel terribile aspetto sfondato. Era troppo, così a ridosso dell'uccisione a tradimento di Eddie.
Eppure...
«Non ti muovere», gli raccomandò alzandosi. «Oy, non permettergli di muoversi.»
«Non mi muoverò.» Ogni singola parola scandita, sicura. Ma ora Roland vedeva che il sangue gli scuriva il lembo inferiore della camicia e l'inguine dei jeans, sbocciava anche lì come rose. Già una volta era morto ed era tornato. Ma non da questo mondo. In questo mondo, la morte era sempre definitiva.
Roland si chinò sullo scrittore.
2
Quando Bryan Smith cercò di divincolarsi da dietro il volante del suo pullmino, lrene Tassenbaum lo respinse con forza. I suoi cani, forse per aver fiutato il sangue o Oy o entrambi, abbaiavano esagitati dietro il conducente. La radio sparava adesso un nuovo pezzo heavy metal assolutamente infernale. La Tassenbaum temette che le scoppiasse la testa, non per lo choc di quanto era appena accaduto, ma per colpa di quel fracasso letale. Vide per terra la rivoltella del cowboy e la raccolse. La piccola parte della sua mente ancora capace di pensieri coerenti si sorprese per quanto pesasse. Ciononostante la puntò sull'uomo, poi si allungò davanti a lui e premette il pulsante della radio. Tolte di mezzo quelle chitarre assordanti, riuscì a sentire il cinguettio degli uccellini, il latrare furibondo di due cani e un ululato... be', una specie di ululato.
«Spostati da quello che hai travolto», ordinò. «Adagio, a marcia indietro. E se finisci di nuovo addosso al ragazzo, giuro che ti faccio saltare quella testa di cazzo.»
Bryan Smith la fissò con gli occhi arrossati pieni di confusione. «Quale ragazzo?» chiese.
3
Quando la ruota anteriore del minivan scivolò lentamente all'indietro liberando lo scrittore, Roland vide che la parte inferiore del suo corpo era innaturalmente ruotata sulla destra e che da quella parte uno spunzone gli usciva dalla gamba dei jeans. Doveva essere il femore. Aveva anche la fronte squarciata dal sasso contro cui aveva sbattuto la testa e il lato destro della guancia inondato di sangue. Sembrava in condizioni peggiori di Jake, molto peggiori, ma una sola occhiata bastò al pistolero per concludere che se il suo cuore era forte e avesse sopportato lo choc, probabilmente sarebbe sopravvissuto. Rivide allora Jake che lo afferrava per la cintola, gli faceva da scudo, assorbiva l'impatto con il proprio corpo più piccolo.
«Di nuovo tu», mormorò King.
«Ti ricordi di me.»
«Sì. Ora.» King si passò la lingua sulle labbra. «Sete.»
Roland non aveva niente da bere e se l'avesse avuto non avrebbe concesso a King che di inumidirsi le labbra. L'assunzione di liquidi poteva indurre al vomito un uomo ferito e il vomito poteva portare al soffocamento. «Spiacente», disse.
«No. Non è vero.» Si passò di nuovo la lingua sulle labbra. «Jake?»
«Da quella parte, per terra. Lo conosci?»
King cercò di sorridere. «L'ho scritto. Dov'è quello che c'era con te l'altra volta? Dov'è Eddie?»
«Morto», rispose Roland. «Al Devar-Toi.»
King aggrottò la fronte. «Devar?... Non lo conosco.»
«No. È per questo che siamo qui. Per questo che siamo dovuti venire. Uno dei miei compagni è morto, un altro sta forse morendo, e il tet è spezzato. Tutto per colpa di un uomo indolente e timoroso che ha smesso di fare quello per cui era stato investito dal ka.»
Niente traffico in strada. Eccetto per i cani che abbaiavano, il bimbolo che ululava e gli uccelli che gorgheggiavano, il mondo era silenzioso. Erano come congelati nel tempo. Forse lo siamo, pensò Roland. Ormai aveva visto abbastanza da crederlo possibile. Qualsiasi cosa era possibile.
«Ho perso il Vettore», disse King da dove era disteso sul tappeto di aghi di pino ai bordi della macchia. La luce d'inizio estate impregnava ogni cosa intorno a lui, quella chiazza di verde e oro.
Roland infilò un braccio sotto la schiena di King e lo aiutò ad alzarsi a sedere. Lo scrittore gridò di dolore quando l'estremità superiore del femore destro grattò contro i resti frantumati e compressi della cavità articolare, ma non protestò. Roland puntò il dito al cielo. Nel blu erano sospese, immobili, nuvolette bianche di bel tempo, quelle che i mandriani di Mejis chiamavano los angeles, ma non direttamente sopra di loro. In quel punto correvano veloci come se sospinte da un vento teso.
«Là!» sibilò Roland con furia all'orecchio graffiato e intasato di terra dello scrittore. «Direttamente sopra di te! Tutt'attorno a te! Non lo senti? Non lo vedi?»
«Sì», ammise King, «ora lo vedo.»
«Aye. E c'è sempre stato. Non l'hai perso, hai solo distolto lo sguardo da codardo. Il mio amico ha dovuto salvarti perché tu lo vedessi di nuovo.»
La mano di Roland armeggiò sul cinturone e ne sfilò una cartuccia. Al primo tentativo, non riuscì a eseguire il suo vecchio numero di destrezza; le dita gli tremavano troppo. Poté fermarle solo ricordando a se stesso che più tempo impiegava, più aumentavano le probabilità che fossero interrotti o che Jake morisse mentre lui era occupato con quell'individuo miserabile.
Alzò gli occhi e vide la donna che puntava la pistola sul conducente del veicolo. Bene. Una donna in gamba: perché Gan non aveva consegnato la storia della Torre a qualcuno come lei? In ogni caso non era stato tradito dall'istinto che gli aveva suggerito di prenderla con sé. Persino l'infernale chiasso dei cani e del bimbolo era cessato. Oy leccava la terra e l'olio dal volto di Jake, mentre a bordo del minivan, Pistol e Bullet stavano divorando la carne trita, questa volta senza interferenze del padrone.
Roland tornò a guardare King e la cartuccia compì con sicura destrezza la sua danza sul dorso delle dita. King ne fu incantato quasi immediatamente, come quasi tutte le persone che aveva ipnotizzato prima di lui. I suoi occhi rimasero aperti, ma ora sembrava guardassero attraverso il pistolero, oltre lui.
Il cuore gridò a Roland di sbrigarsi, ma la sua mente era consapevole del rischio. Non puoi sbagliare. Se non vuoi che il sacrificio di Jake sia stato inutile.
La donna lo guardava e lo stesso faceva il guidatore del minivan seduto a bordo del suo veicolo con lo sportello aperto. Sai Tassenbaum stava opponendo resistenza, Roland se ne accorse, ma Bryan Smith aveva seguito King nel regno del sonno. Non ne fu meravigliato più che tanto. Se quell'uomo aveva avuto anche solo un vago sentore di ciò che aveva fatto, era presumibile che approfittasse di una qualsiasi opportunità di fuga. Anche se temporanea.
Il pistolero riportò la sua attenzione sull'uomo che, doveva presumere, era il suo biografo. Cominciò come la volta precedente. Pochi giorni prima nella sua vita. Più di vent'anni prima in quella dello scrittore.
«Stephen King, mi vedi?»
«Ti vedo molto bene, pistolero.»
«Quando mi hai visto l'ultima volta?»
«Quando abitavamo a Bridgton. Quando i miei figli erano piccoli. Quando stavo ancora imparando a scrivere.» Una pausa, quindi aggiunse quello che Roland dedusse doveva essere, per lui, il riferimento temporale più importante di tutti, una cosa che differisce per ciascuno di noi: «Quando bevevo ancora».
«Stai dormendo profondamente adesso?»
«Profondamente.»
«Sei sotto il dolore?»
«Ci sono sotto, sì. Grazie.»
Il bimbolo ululò di nuovo. Roland si guardò attorno, atterrito da ciò che poteva significare. La donna era andata a inginocchiarsi di fianco a Jake. Con sollievo Roland vide che Jake le passava un braccio intorno al collo e le faceva abbassare la testa per poterle parlare all'orecchio. Se era abbastanza forte per quello...
Piantala! Hai visto com'è sotto la camicia. Non puoi permetterti di sprecare tempo sperando.
C'era un crudele paradosso lì: poiché amava Jake, doveva rimettere la morte di Jake alle cure di Oy e della donna che avevano conosciuto meno di un'ora prima.
Pazienza. Ora doveva occuparsi di King. Fosse Jake entrato nella radura mentre lui gli volgeva la schiena... se il ka dice così, che così sia.
Roland raccolse volontà e concentrazione. Le focalizzò in un punto ardente, poi rivolse di nuovo l'attenzione allo scrittore. «Sei tu Gan?» chiese bruscamente, senza sapere perché l'avesse fatto, ma solo che era la domanda giusta.
«No», rispose prontamente King. Il sangue dal taglio che aveva alla testa gli colò in bocca e lo sputò senza batter ciglio. «Una volta credevo di esserlo, ma era tutta colpa dell'alcol. E della superbia, immagino. Nessuno scrittore è Gan... nessun pittore, nessuno scultore, nessun creatore di musica. Noi siamo kas-ka Gan. Non ka-Gan, ma kas-ka Gan. Capisci?»
«Sì», disse Roland. I profeti di Gan o i cantori di Gan: potevano significare gli uni o gli altri. E ora sapeva perché glielo aveva domandato. «E la canzone che canti è Ves'-Ka Gan. Giusto?»
«Oh, sì» esclamò King e sorrise. «La canzone della Tartaruga. È bellissima, troppo per quelli come me, che non sanno nemmeno intonare un motivetto qualunque!»
«Non m'importa», ribatté Roland. Pensò con tutta la forza e la chiarezza di cui la mente intorbidita era capace. «E ora sei ferito.»
«Sono paralizzato?»
«Non lo so.» Né mi importa. «So solo che vivrai e quando potrai scrivere di nuovo, ascolterai la canzone della Tartaruga, Ves'-Ka Gan, come avevi fatto prima, paralizzato o no. E questa volta canterai finché la canzone non sarà completata.»
«Va bene.»
«Dovrai...»
«E Urs-Ka Gan, la canzone dell'Orso», lo interruppe King. Poi scosse la testa, nonostante il dolore che gli provocò il movimento anche nello stato ipnotico in cui si trovava. «Urs-A-Ka Gan.»
Il Verso dell'Orso? Il Grido dell'Orso? Roland non sapeva quale. Avrebbe dovuto sperare che non fosse importante, che fosse un semplice cavillo da scrittore.
Passò sulla scena dell'incidente senza rallentare un'automobile con una casa mobile a rimorchio, poi sfrecciarono nell'altra direzione due motociclette di grossa cilindrata. Allora Roland fece una riflessione che trovò stranamente persuasiva: il tempo non si era fermato, ma loro, in quel momento, erano diafani. Venivano protetti in quel modo dal Vettore, che non era più aggredito e pertanto era in grado di aiutare almeno un po'.
4
Diglielo di nuovo. Non ci devono essere fraintendimenti. E niente debolezze, come gli è già accaduto.
Si chinò a portare la faccia davanti a quella di King, quasi a sfiorarsi l'un l'altro con il naso. «Questa volta canterai finché la canzone non sarà finita, scriverai finché la storia non sarà raccontata. Mi capisci bene?»
«'E vissero felici e contenti fino alla fine dei loro giorni'», recitò trasognato King. «Mi piacerebbe poter scrivere così.»
«Anche a me.» Ed era vero. Lo avrebbe desiderato più di ogni altra cosa. Nonostante il dolore, ancora non c'erano lacrime, si sentiva gli occhi come pietre roventi conficcate nel cranio. Forse le lacrime sarebbero venute dopo, quando la verità di quello che era stato lì avesse cominciato a prendere consistenza nella sua mente.
«Farò come dici, pistolero. Comunque vada la storia quando le pagine cominceranno ad assottigliarsi.» Anche la voce di King si andava assottigliando. Roland sapeva che presto avrebbe perso conoscenza. «Mi spiace per i tuoi amici, mi spiace davvero.»
«Grazie», rispose Roland, trattenendosi ancora dallo stringere le mani intorno al collo dello scrittore e strozzarlo una volta per tutte. Cominciò a rialzarsi, ma King disse qualcosa che lo fermò.
«Hai ascoltato la sua canzone, come ti avevo detto? La canzone di Susannah?»
«Io... sì.»
Ora King si sollevò faticosamente su un gomito e, sebbene stesse chiaramente perdendo le forze, la sua voce risuonò secca e forte. «Ha bisogno di te. E tu di lei. Lasciami solo ora. Conserva il tuo odio per coloro che lo meritano di più. Non sono stato io a fabbricare il tuo ka più di quanto abbia creato Gan o il mondo, lo sappiamo bene tutti e due. Buttati le tue sciocchezze alle spalle, e buttaci anche il tuo cordoglio. Fai quello che vuoi che faccia io.» La voce di King si levò in un grido ruvido; la sua mano scattò e ghermì il polso di Roland con una forza sorprendente. «Finisci il lavoro!»
Quando Roland cercò di rispondere, sulle prime dalla bocca non gli uscì niente. Dovette schiarirsi la gola e ricominciare. «Dormi, sai. Dormi e dimentica tutti quelli che erano qui eccetto l'uomo che ti ha investito.»
Le palpebre di King si abbassarono lentamente. «Dimentico tutti quelli che sono qui eccetto l'uomo che mi ha investito.»
«Stavi facendo la tua passeggiata e quest'uomo ti è venuto addosso.»
«Passeggiavo... e quest'uomo mi è venuto addosso.»
«Non c'era nessun altro. Né io, né Jake, né la donna.»
«Nessun altro», ripeté King. «Solo io e lui. Lui dirà la stessa cosa?»
«Yar. Presto dormirai profondamente. Forse dopo sentirai dolore, ma non ora.»
«Nessun dolore ora. Sonno profondo.» Il corpo storto di King si rilassò sugli aghi di pino.
«Ma prima di dormire, ascoltami ancora una volta», aggiunse Roland.
«Ascolto.»
«Potrebbe venire da te una donna... aspetta. Sogni l'amore con gli uomini?»
«Mi stai chiedendo se sono gay? Magari un omosessuale latente?» King sembrò divertito.
«Non lo so.» Roland ci pensò su. «Credo di sì.»
«La risposta è no», dichiarò King. «Talvolta sogno l'amore con le donne. Un po' meno ora da quando sono invecchiato... e probabilmente non più per un bel pezzo ora. Quella testa di cazzo mi ha conciato male.»
Non tanto male quanto il mio ragazzo, pensò con amarezza Roland, ma non lo disse.
«Se sogni solo l'amore con le donne, sarà forse una donna che verrà da te.»
«Così dici?» King sembrava incuriosito.
«Sì. Se verrà, sarà bella. Potrebbe parlarti della serenità e del piacere della radura. Si farà chiamare forse Morphia, Figlia di Sonno, o Selena, Figlia della Luna. Ti offrirà forse il braccio e ti prometterà di condurti alla radura. Tu devi rifiutare.»
«Devo rifiutare.»
«Anche se sarai tentato dai suoi occhi e dal suo seno.»
«Anche in quel caso.»
«Perché rifiuterai, sai?»
«Perché la canzone non è finita.»
Finalmente Roland si sentì soddisfatto. La signora Tassenbaum era inginocchiata su Jake. Il pistolero ignorò lei e il ragazzo. Andò invece dall'uomo che sedeva abbandonato al volante dell'autocarrozza che aveva provocato quella tragedia. Gli occhi di quell'uomo erano sbarrati e vuoti, la bocca era rilasciata. Un filo di saliva gli pendeva dal mento ruvido di barba.
«Mi odi, sai?»
L'uomo annuì intimorito. Dietro di lui, i cani si erano zittiti. Quattro occhi vivi rimirarono il pistolero da dietro il sedile.
«Come ti chiami?»
«Bryan, di grazia. Bryan Smith.»
No, non ci trovava niente di grazioso. Davanti a lui c'era piuttosto un altro che avrebbe volentieri strozzato. Un'altra autovettura transitò per la strada e questa volta la persona al volante suonò il clacson mentre passava. La protezione di cui avevano goduto fino a quel momento cominciava a scemare. «Sai Smith, tu hai investito un uomo con la tua macchina o il tuo carromobile o comunque lo chiami.»
Bryan Smith cominciò a tremare dalla testa ai piedi. «Non ho mai preso nemmeno una multa per sosta vietata», piagnucolò, «e devo tirar sotto la massima celebrità di questo stato! I miei cani stavano litigando...»
«Le tue bugie non mi toccano», lo interruppe Roland, «ma mi irrita la paura che le origina. Chiudi la bocca.»
Bryan Smith ubbidì. Il colorito gli si andava spegnendo nel volto, lentamente ma progressivamente.
«Eri solo quando lo hai investito», riprese Roland. «C'eravate solo tu e il contastorie. Hai capito?»
«Ero solo. Mister, lei è un walk-in?»
«Non ci pensare. Lo hai soccorso e hai visto che era ancora vivo.»
«Ancora vivo, bene», ripeté Smith. «Io non volevo fare del male a nessuno, davvero.»
«Ti ha parlato. Per questo sai che era vivo.»
«Sì!» Smith sorrise. Poi increspò la fronte. «Che cosa ha detto?»
«Non te lo ricordi. Eri sconvolto.»
«Sconvolto. Sconvolto. Sì.»
«Ora vai. Mentre andrai, ti sveglierai a poco a poco. E quando arriverai a un'abitazione o a un negozio, ti fermerai e avvertirai che c'è un uomo ferito sulla strada. Un uomo che ha bisogno di aiuto. Ripeti e non sbagliare.»
«Vado», disse Bryan. Le sue mani accarezzarono il volante come se preso dal desiderio di ripartire immediatamente. Probabilmente era così. «Mi sveglio, a poco a poco. Quando arrivo a un'abitazione o a un negozio, dico che Stephen King è ferito sulla strada e ha bisogno di aiuto. So che è ancora vivo perché mi ha parlato. È stato un incidente.» Fece una pausa. «Non è stata colpa mia. Camminava nella strada.» Una pausa. «Probabilmente.»
M'importa su chi ricadrà la responsabilità di questo guaio? si chiese Roland. In verità no. King avrebbe ripreso a scrivere comunque. E Roland quasi sperava che la colpa ricadesse su lui stesso, perché in fondo era stato così, non avrebbe mai dovuto trovarsi lì.
«Vattene ora», ordinò a Bryan Smith. «Non voglio più vederti.»
Smith avviò il motore con enorme sollievo. Roland non stette guardarlo andar via. Tornò dalla signora Tassenbaum e s'inginocchiò al suo fianco. Oy era accucciato vicino alla testa di Jake, muto ora, sapendo che la persona per cui si stava straziando non poteva più udire i suoi ululati. Quello che soprattutto il pistolero aveva temuto, si era infine avverato. Mentre lui parlava con due uomini che disprezzava, il ragazzo che aveva amato più di ogni altro, più di chiunque avesse amato in vita sua, persino Susan Delgado, lo aveva lasciato per la seconda volta. Jake era morto.
5
«Ti ha parlato», disse Roland. Prese Jake tra le braccia e cominciò a cullarlo dolcemente. Gli Oriza tintinnarono nella sacca. Sentì il corpo di Jake che cominciava a raffreddarsi.
«Sì», confermò lei.
«Che cosa ha detto?»
«Mi ha detto di tornare a prendere lei 'dopo che qui sarà finito tutto'. Queste sono state le sue parole precise. E ha detto: 'Di' a mio padre che lo amo'.»
Roland fece un lamento, strozzato e pieno di angoscia. Ricordava Fedic, quando avevano appena varcato la porta. Hile, padre, lo aveva salutato Jake. Anche allora Roland lo aveva preso tra le braccia. Solo che allora aveva sentito il battito del suo cuore. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirlo anche ora.
«C'era dell'altro», continuò lei, «ma abbiamo tempo di occuparcene ora, specialmente quando posso riferirle tutto più tardi?»
Roland colse immediatamente il senso del suo sollecito. La versione che dell'episodio avevano nella mente Bryan Smith e Stephen King era molto semplice. Non c'era posto in essa per un allampanato pellegrino con un pistolone all'anca e una donna con i capelli che cominciavano a ingrigire; meno che mai per un ragazzino morto con una sacca piena di piatti affilati sulla spalla e una mitraglietta infilata nella cintola dei calzoni.
Restava da capire se la donna sarebbe tornata. Non era la prima persona che induceva a fare cose che normalmente non avrebbe fatto, ma sapeva che, una volta allontanatasi da lui, avrebbe potuto rivedere tutto sotto una luce diversa. Chiederle di promettere - giuri di tornare a prendermi, sai? lo giuri sul cuore fermo di questo ragazzo? - non sarebbe servito. Avrebbe anche giurato con il cuore in mano e cominciare ad avere ripensamenti già dopo la prima curva.
Eppure quando aveva avuto la possibilità di prendere il bottegaio proprietario del pick-up, non lo aveva fatto. Né aveva scambiato la donna con il vecchio che tagliava l'erba a casa dello scrittore.
«Rimanderemo», disse. «Ora fila via. Se per qualche motivo riterrai di non poter tornare qui, non ti serberò rancore.»
«E lei dove andrà se la lascio solo?» ribatté Irene Tassenbaum. «Come può sapere dove andare? Questo non è il suo mondo, giusto?»
Roland ignorò la domanda. «Se la prima volta che torni qui c'è ancora della gente, agenti di pace, soldati della guardia, giacche blu, non so, passa senza fermarti. Torna dopo mezz'ora. Se sono ancora qui, non ti fermare di nuovo. Continua così finché se ne sono andati.»
«Noteranno il mio andirivieni?»
«Non lo so. Secondo te?»
Lei rifletté, poi quasi sorrise. «Gli sbirri di queste parti? Probabilmente no.»
Lui annuì accettando il suo giudizio. «Quando ti sembrerà che non ci sia più pericolo, fermati. Tu non mi vedrai, ma io vedrò te. Aspetterò che faccia buio. Se non ci sei per allora, andrò.»
«Tornerò a prenderti, ma non verrò con questo miserabile rottame», dichiarò lei. «Sarò su una Mercedes-Benz S600.» lo disse con un certo orgoglio.
Roland, che non aveva idea di che cosa fosse una «merce des benz», annuì come se lo sapesse. «Vai. Parleremo dopo, quando sarai tornata.»
Se sarai tornata, pensò.
«Credo che le piacerà riavere questa», aggiunse ancora lei infilandogli la rivoltella nella fondina.
«Grazie-sai.»
«Non c'è di che.»
La guardò tornare al vecchio pick-up (a cui secondo lui aveva cominciato ad affezionarsi, nonostante le parole sprezzanti) e accomodarsi al volante. Fu allora che ricordò che c'era qualcosa che gli occorreva, qualcosa che poteva essere sul camioncino. «Ohi!»
Irene Tassenbaum aveva allungato la mano sulla chiave dell'accensione. Ora la staccò per guardare lui con un'espressione interrogativa. Roland posò delicatamente Jake sulla terra dentro la quale presto avrebbe riposato per sempre (era quello il pensiero che lo aveva spinto a fermare la donna) e si alzò in piedi. Fece una smorfia e si portò la mano al fianco, ma era solo un'abitudine. Non sentiva dolore.
«Cosa?» chiese lei mentre lui le si avvicinava. «Se non vado via subito...»
Sarebbe diventato tutto inutile. «Sì. Lo so.»
Roland guardò nel cassone. Assieme ad alcuni utensili sparsi c'era una sagoma a parallelepipedo protetta da un'incerata blu. I lembi erano stati rimboccati sotto l'oggetto che dovevano proteggere perché non volasse via. Quando Roland sollevò il telo, trovò una decina di scatole fatte di quella carta rigida che Eddie chiamava «cartone». Erano state accostate l'una all'altra a formare il parallelepipedo. La figura sui cartoni lo informò che erano scatole di birra. Non gli sarebbe importato neppure se fossero state di esplosivo.
Era il telo che voleva.
Indietreggiò tenendolo fra le braccia e disse: «Ora puoi andare».
Lei afferrò di nuovo la chiave dell'accensione, ma non la girò subito. «Signore», disse, «lasci che le esprima le mie più sentite condoglianze per il suo lutto. Dovevo dirglielo. Vedo bene quanto le stava a cuore quel ragazzo.»
Roland Deschain chinò la testa e tacque.
Irene Tassenbaum lo contemplò ancora per un momento, pensando che talvolta le parole sono così maledettamente inutili, poi avviò il motore e chiuse lo sportello. Roland la guardò risalire sulla sede stradale (aveva già preso dimestichezza con l'uso della frizione) e girare a tutto sterzo in direzione nord, di nuovo verso Stoneham.
Condoglianze per il suo lutto.
Ora era rimasto solo con quel lutto. Solo con Jake. Per un momento sostò a osservare il boschetto di fianco alla strada, a guardare due delle tre persone che erano state chiamate in quel luogo: un uomo, privo di sensi, e un ragazzo morto. Gli occhi di Roland erano asciutti e ardenti, gli pulsavano nelle orbite, e per un momento fu certo di aver perso di nuovo la capacità di piangere. Era un'idea che lo riempì di orrore. Se era incapace di lacrime dopo tutto quello - dopo quello che aveva recuperato e poi di nuovo perduto - a che cosa era servito? Fu così immenso il sollievo che provò quando le lacrime finalmente vennero. Gli sgorgarono dagli occhi placando il bagliore quasi folle che li animava. Gli scivolarono per le guance sporche. Pianse quasi silenziosamente, ma gli sfuggì un solitario singhiozzo e Oy lo udì. Sollevò il muso al flusso di nuvole in fuga e ululò una sola volta. Poi fu in silenzio anche lui.
6
Roland s'inoltrò fra gli alberi con Jake tra le braccia e Oy alle calcagna. Che il bimbolo piangesse non sorprendeva più Roland; non era la prima volta. Ed erano passati da un pezzo i giorni in cui aveva creduto che le manifestazioni d'intelligenza (ed empatia) di Oy fossero solo imitazioni. Durante quella breve camminata si concentrò piuttosto su una preghiera per i morti che aveva udito recitare da Cuthbert nella loro ultima campagna insieme, quella che si era conclusa a Jericho Hill. Dubitava che Jake avesse bisogno di una preghiera come viatico, ma piuttosto era lui a sentire il bisogno di tenere la mente occupata, Perché in quel momento non gli sembrava molto solida. Se si fosse spinta troppo lontano nella direzione sbagliata, certamente lo avrebbe abbandonato. Più tardi forse avrebbe potuto lasciarsi andare all'isteria, o all'irina, la follia guaritrice - ma non ora. Non si sarebbe lasciato andare adesso. Non avrebbe lasciato che la morte del ragazzo si dissolvesse in nulla.
Il fosco bagliore verde-oro che abita solo i boschi (e boschi secolari, per la precisione, come quello delle scorribande dell'Orso Shardik), s'intensificò. Filtrava tra gli alberi in raggi polverosi e il luogo in cui finalmente Roland si fermò somigliava più a una chiesa che a una radura. Si era allontanato all'incirca di duecento passi dalla strada dirigendosi più o meno a ovest. Lì depositò Jake e si guardò intorno. Vide un paio di lattine di birra arrugginite e qualche bossolo, resti probabilmente di cacciatori. Gettò i rifiuti più lontano perché la radura fosse pulita. Poi guardò Jake, asciugandosi le lacrime per poterlo vedere il più chiaramente possibile. Il volto del ragazzo era pulito come la radura, ci aveva pensato Oy, ma aveva ancora un occhio aperto a conferirgli un'espressione maligna che non era ammissibile. Roland gli abbassò la palpebra spingendola con il polpastrello e quando essa si riaprì di scatto (come una tendina a molla difettosa, pensò), si leccò la punta del pollice e gliela abbassò di nuovo. Questa volta rimase giù.
Sulla camicia aveva polvere e sangue. Roland gliela tolse, poi si tolse la propria e la infilò su Jake, manovrandolo come una bambola per vestirlo. Gli arrivava fin quasi alle ginocchia, ma Roland non cercò di infilargliela nei calzoni; in quel modo copriva le macchie di sangue che aveva sui jeans.Tutto questo Oy osservò con gli occhi cerchiati d'oro lucidi di pianto.
Roland si era aspettato che il terreno sotto il denso tappeto di aghi fosse soffice, e così era. Era già a buon punto con lo scavo della fossa di Jake, quando gli giunse dalla strada il rumore di un veicolo. Altre autocarrozze erano passate da quando aveva trasportato Jake nel bosco, ma riconobbe le tipiche dissonanze di quest'ultima. Era di nuovo l'uomo sul veicolo blu. Roland non era stato del tutto certo che sarebbe tornato.
«Resta qui», mormorò al bimbolo. «Fai la guardia al tuo padrone.» Ma era sbagliato. «Resta e fai la guardia al tuo amico.»
Non ci sarebbe stato niente di strano se Oy avesse ripetuto l'ordine ricevuto ('Sta! Era il massimo che avrebbe potuto articolare) nello stesso tono di voce basso, ma questa volta non disse nulla. Roland lo guardò accucciarsi di fianco alla testa di Jake e inghiottire al volo una mosca quando si avvicinò con l'intenzione di posarsi sul naso del ragazzo. Annuì soddisfatto e tornò indietro.
7
Bryart Smith era smontato dalla sua autocarrozza e sedeva sul muretto, con il bastone posato sulle ginocchia. (Roland non seppe giudicare se quel bastone fosse un vezzo o qualcosa che gli serviva davvero, ma nemmeno gli importava scoprirlo. King aveva riacquistato un torbida versione di coscienza e i due stavano parlando.
«La prego, mi dica che è solo una lussazione», mormorò lo scrittore con un filo di voce tremante di ansia.
«No! Direi che la gamba è fratturata in sei, forse sette punti.» Ora che aveva tempo di riprendersi e magari mettere assieme una storia, Smith sembrava non solo tranquillo, ma quasi felice.
«Potrebbe almeno cercare di tenermi su di morale», brontolò King. La parte visibile della sua faccia era molto pallida, ma l'emorragia dalla ferita alla tempia si era quasi arrestata. «Ha una sigaretta?»
«Nossignore», rispose Smith in quel tono gaio che sembrava così fuori luogo. «Ho smesso.»
Sebbene non particolarmente dotato di tocco, Roland ne aveva a sufficienza da sapere che mentiva. Ma Smith ne aveva solo tre e non voleva sacrificarne una per un uomo che avrebbe potuto imbottirgli di sigarette il minivan senza nemmeno accorgersi di quanto aveva speso. E poi, pensò Smith...
«E poi quelli che hanno avuto un incidente non devono fumare», lo censurò in tono virtuoso.
King annuì. «Fatico a respirare comunque», ammise.
«Probabile che ci abbia rimesso anche una costola o due. Io mi chiamo Bryan Smith. Sono quello l'ha investita. Chiedo scusa.» Porse la mano e, incredibilmente, King gliela strinse.
«Non mi era mai successo niente del genere», dichiarò Smith. «Non ho mai nemmeno preso una multa per sosta vietata.»
Che avesse intuito o no che mentiva, King scelse di non commentare; aveva altro in mente. «Signor Smith... Bryan... c'era nessun altro qui?»
Ancora tra gli alberi, Roland si irrigidì.
Smith diede effettivamente l'impressione di pensarci su. Si tolse di tasca un Mars e cominciò a scartarlo. Poi scosse la testa. «Solo lei e io. Ma giù al negozio ho chiamato il 911 e il pronto soccorso. Hanno detto che c'è qualcuno abbastanza vicino. Che saranno qui subito. Non si preoccupi.»
«Lei sa chi sono.»
«Ma vorrei ben vedere!» esclamò Bryan Smith e rise. Staccò un morso e parlò masticando. «L'ho riconosciuta subito. Ho visto tutti i suoi film. Il mio preferito è quello con il San Bernardo. Come si chiamava quel cane?»
«Cujo», rispose King. Era un parola che Roland conosceva. L'aveva usata qualche volta Susan Delgado quando erano soli insieme. A Mejis, cujo significava «dolcezza mia».
«Ma sì! Ah, forte quello! Che fifa! Sono contento che alla fine il bambino se la sia cavata!»
«Nel libro moriva.» Poi King chiuse gli occhi e appoggiò la testa disponendosi all'attesa.
Smith mangiò un altro boccone, enorme questa volta. «Mi è piaciuto anche quello del pagliaccio! Molto forte!»
King non rispose. I suoi occhi rimasero chiusi, ma Roland giudicò che il sollevarsi e ricadere del petto dello scrittore fosse profondo e regolare. Era un buon segno.
Fu allora che sopraggiunse rombando un pullmino che sterzò in una brusca frenata davanti al minivan di Smith. La nuova autocarrozza era grande più o meno quanto un carro funebre, ma arancione invece che nera e con luci lampeggianti. Roland non fu dispiaciuto di vederla passare sopra le tracce lasciate dal pick-up del bottegaio prima di fermarsi.
Già pensava di veder scendere un robot, quando ne smontò un uomo. Prelevò dall'interno una borsa nera da segaossi. Constatato che lì tutto procedeva nella maniera migliore, Roland tornò da Jake, muovendosi con la sua consueta, inconsapevole grazia: non spezzò un solo ramoscello, non un solo uccellino spiccò il volo spaventato.
8
Vi sorprenderebbe, dopo tutto quello che abbiamo visto insieme e dopo tutti i segreti che abbiamo appreso, di sapere che alle cinque e un quarto di quel pomeriggio, la signora Tassenbaum fermò il vecchio pick-up di Chip McAvoy nel vialetto di una casa che abbiamo già visitato? Probabilmente no, perché il ka è una ruota, e la sola cosa che sa fare è girare. Quando siamo stati qui l'ultima volta, nel 1977, casa e rimessa per le barche sulla sponda del Keywadin Pond erano bianche con profili verdi. I Tassenbaum, che avevano acquistato la proprietà nel 1994, avevano ridipinto tutto quanto di un colore bianco panna (niente tinta di contrasto per i profili; per come la vedeva Irene Tassenbaum, i profili di un altro colore era per chi non sapeva prendere decisioni). Avevano anche piantato un cartello con la scritta SUNSET COTTAGE all'imboccatura del vialetto e, per quanto riguardava lo Zio Sam, tale era il nome del destinatario per il recapito della corrispondenza, ma per la gente di lì, quella casa all'estremità sud del Keywadin Pond sarebbe stata per sempre la vecchia cuccia di John Cullum.
Parcheggiò il camioncino di fianco alla sua Mercedes rosso scuro ed entrò, ripetendo mentalmente quello che avrebbe raccontato a David per giustificare la presenza del pick-up, ma al Sunset Cottage regnava quel particolare silenzio che hanno i posti dove non c'è nessuno. Lei lo percepì immediatamente. Aveva una lunga esperienza di luoghi deserti in cui tornare, dapprincipio appartamenti, poi case di volta in volta più grandi. Non perché David fosse uno che si eclissava spesso per andare a bottiglie o a donne, che il buon Dio ci perdoni. No, era che lui e suoi amici erano quasi sempre imbucati in un garage o un altro, in uno scantinato o un altro, a bere vino economico e birra scontata comprati al Beverage Barn, intenti a creare Internet e tutto il software necessario per usarlo e renderlo user-friendly. I profitti, per quanto pochi sarebbero disposti a crederlo, erano solo un effetto collaterale. Il silenzio che accoglieva così spesso a casa le loro mogli era un altro. Con il passare del tempo tutto quel ronzio uniforme che trapunta il silenzio ti prende i nervi, ti fa dar fuori di testa, persino, ma non quel giorno. Quel giorno era ben felice di avere la casa tutta per sé.
Andresti a letto con lo sceriffo Dillon, se ti volesse?
Era un interrogativo sul quale non aveva neanche bisogno di riflettere. La risposta era sì, sarebbe andata a letto con lui, se lui l'avesse voluta: di fianco, alla rovescia, alla pecorina o alla missionaria, comunque avesse preferito. Ma lui non avrebbe voluto. Nemmeno se non avesse pianto per il suo giovane
(sai? figlio?)
amico, non avrebbe voluto dormire con lei, con le sue rughe, con i suoi capelli che ingrigivano alla radice, con la ruota di scorta che i suoi vestiti griffati non riuscivano a nascondere del tutto. La sola idea era ridicola.
Però sì. Se l'avesse voluta, ci sarebbe stata.
Controllò lo sportello del frigorifero e lì, fermato da una delle calamite che lo costellavano (questa in particolare diceva:
NOI SIAMO POSITRONICS, COSTRUIAMO IL FUTURO UN CIRCUITO ALLA VOLTA) c'era un breve messaggio.
Ire...
Volevi che mi rilassassi, così mi sto rilassando (dannazione!). Andato a pesca con Sonny Emerson, in fondo al lago, ayuh, ayuh. Tornerò per 7 se non mi scacciano le zanzare. Se ti porto un persico tu pulisci e cucini?
D.
PS: allo spaccio c'è stato qualcosa di grosso abbastanza per tre macchine polizia. WALK-IN, forse???? ☺( Se senti qualcosa, fammi sapere.
Gli aveva detto che sarebbe andata lei a fare la spesa questa volta (uova e latte che non aveva mai comprato) e lui aveva annuito. Sì cara, sì cara. Ma nel suo messaggio non c'era traccia di ansia, non un indizio che si fosse anche solo ricordato quello che gli aveva detto. D'altra, parte, che cosa doveva aspettarsi? Con David, le informazioni entravano dall'orecchio A e le informazioni uscivano dall'orecchio B. Benvenuti al Geniomondo.
Girò il foglietto, prelevò una penna da una tazza da tè che ne era piena, esitò, quindi scrisse:
David,
è successa una cosa e devo andare via per un po'. 2 giorni minimo, credo forse 3 o 4. Non stare in pensiero per me, e non chiamare nessuno. SPECIALMENTE NON LA POLIZIA. Il tuo gattino randagio.
Avrebbe capito? Pensava di sì, se avesse ricordato come si erano conosciuti. Alla Protezione Animali di Santa Monica, era stato, tra le file di canili nel retro: l'amore sboccia mentre i bastardi abbaiano. Ci trovava un'eco di James Joyce, buon Dio. Lui aveva portato lì un cane randagio che aveva trovato per strada vicino all'appartamento che condivideva insieme a cinque o sei teste d'uovo suoi amici. Lei stava cercando un gattino per ravvivare una vita essenzialmente priva di amicizie. Lui all'epoca aveva tutti i suoi capelli. Quanto a lei, trovava un po' buffe le donne che se li tingevano. Il tempo era un ladro e una delle prime cose che ti portava via era il senso dell'umorismo.
Esitò. Poi aggiunse
Ti amo,
Ire
Era ancora vero? Ma lasciamocelo lo stesso. Tirare una riga su una cosa che hai scritto con l'inchiostro fa sempre un brutto effetto. Affisse il messaggio di nuovo al frigorifero con la stessa calamita.
Prese le chiavi della Mercedes dal cestino accanto alla porta d'ingresso, poi ricordò la barca, ancora legata al piccolo molo dietro il negozio. Là sarebbe stata al sicuro. Poi però ricordò qualcos'altro, una cosa che le aveva confidato il ragazzo. Non sa niente di soldi.
Tornò indietro, a sfilare tre banconote da cinquanta l'una dal mazzetto che conservavano sempre nella dispensa (c'erano posti in quei boschi dove sarebbe stata pronta a giurare che non avevano mai sentito neppure parlare di MasterCard). Ripartì, si strinse nelle spalle, tornò indietro di nuovo, e ne prese altre tre. Perché no? Era un giorno in cui stava vivendo pericolosamente.
Mentre usciva, sostò di nuovo a guardare il messaggio. Infine, per assolutamente nessuna ragione che le fosse comprensibile, tolse la calamita della Positronics e la sostituì con uno spicchio di arancia. Solo allora se ne andò.
Il futuro poteva attendere. Al momento il presente la teneva già occupata abbastanza.
9
Il carro delle emergenze era andato a portare lo scrittore a un ospedale o un'infermeria dei paraggi, presumette Roland. Gli agenti di pace erano arrivati subito dopo ed erano rimasti una mezz'ora circa a colloquio con Bryan Smith. Da dove si trovava, appena dietro il primo dosso, il pistolero ascoltò il loro conciliabolo. Le domande delle giacche blu erano chiare e poste con cortesia, le risposte di Smith un po' peggio che confuse. Roland non vide ragione di interrompere il suo lavoro. Avrebbe affrontato la situazione se e quando le giacche blu fossero arrivate fin lì e lo avessero trovato. Si sarebbe limitato a neutralizzarle, a meno che glielo rendessero impossibile; gli dei sapevano che i morti ammazzati bastavano e avanzavano. Ma avrebbe seppellito il suo morto, in un modo o in un altro.
Avrebbe seppellito il suo morto.
La bella luce verde-oro che riempiva la radura s'intensificò. Lo trovarono le zanzare, ma Roland non sospese quello che stava facendo per scacciarle, lasciò che si rimpinzassero a dovere e se ne andassero pesanti del loro carico di sangue. Mentre finiva di scavare la fossa con le mani, sentì avviarsi tre motori: il rombo uniforme di due automobili e quello più irregolare del carromobile di Smith. Aveva udito le voci di due soli agenti di pace, quindi, se non c'era anche una terza giacca blu che non aveva avuto niente da dire, stavano consentendo a Smith di guidare il suo mezzo. Roland lo trovò un po' strano, ma - come l'interrogativo se King fosse o no paralizzato - non era questione che lo riguardasse. L'unica cosa che contava era quello che stava facendo. L'unica cosa che contava era occuparsi del suo amato.
Compì tre viaggi per raccogliere sassi, perché una fossa scavata a mano era necessariamente poco profonda e gli animali, anche in un mondo addomesticato come quello, erano sempre affamati. Accatastò i sassi in testa alla fossa, una scalfitura foderata di terra così ubertosa da sembrare raso nero. Oy era accucciato accanto alla testa di Jake e guardava il pistolero andare e tornare senza dire nulla. Era sempre stato diverso da quelli della sua specie di prima che il mondo andasse avanti; Roland aveva persino pensato che potesse essere stata la straordinaria loquacità di Oy a spingere gli altri del suo tet a espellerlo e nemmeno con troppi complimenti. Quando lo avevano trovato, non lontano dal borgo di Crocefiume, era ridotto a uno scheletro dall'inedia e aveva sul fianco una ferita da morso ancora non del tutto rimarginata. Il bimbolo aveva amato Jake a prima vista: «tanto è chiaro quanto Terra richiede», avrebbe detto Cort (e anche il padre di Roland, se è per questo). Ed era a Jake che il bimbolo parlava soprattutto. Ora Roland aveva il sospetto che, morto il ragazzo, Oy si sarebbe chiuso in un silenzio quasi totale e quel pensiero fu un altro modo con cui definire ciò che era perduto.
Ricordò il ragazzo davanti al folken di Calla Bryn Sturgis nella luce delle torce, con quel suo faccino giovane e bello, come se fosse destinato a vivere in eterno. Io sono Jake Chambers, figlio di Elmer, della discendenza di Eld, il Ka-Tet del Novanta e Nove, aveva detto e, oh, aye, eccolo qui ora nel Novanta e Nove, con la sua fossa scavata, pulita e pronta per lui.
Roland ricominciò a piangere. Si coprì il viso con le mani e dondolò avanti e indietro sulle ginocchia, fiutando la dolce fragranza degli aghi di pino e rimpiangendo di non essersi tirato indietro prima che il ka, quel demone antico e paziente, gli avesse rivelato il vero prezzo della sua ricerca. Avrebbe dato qualunque cosa per cambiare ciò che era stato, qualunque cosa per ricoprire quella fossa con dentro niente, ma quello era il mondo in cui il tempo correva in un senso solo.
10
Quando si fu sfogato, avvolse con cura Jake nell'incerata blu, sistemandogli una sorta di cappuccio intorno al faccino immoto e bianco. Avrebbe coperto quel faccino del tutto prima di cominciare a riempire la fossa, ma avrebbe rimandato fino all'ultimo momento.
«Oy?» chiamò. «Vuoi dargli il tuo addio?»
Oy lo guardò e per un momento il pistolero non fu certo che avesse capito. Poi il bimbolo allungò il collo e passò per l'ultima volta la lingua sulla guancia del ragazzo. «Io, Eik», disse: Addio, Jake o un guaito di disperazione. L'uno valeva l'altro.
Il pistolero sollevò il ragazzo tra le braccia (com'era leggero quel ragazzino che spiccava il salto dal fienile con Benny Slightman e aveva affrontato i vampiri con Père Callahan, com'era curiosamente leggero; come se il suo peso crescente se ne fosse andato con la sua vita) e lo depositò nelle fossa. Una zolla si sgretolò scivolando sulla guancia di Jake e Roland gliela pulì. Dopo aver fatto questo, chiuse di nuovo gli occhi e pensò. Poi, finalmente, titubante, cominciò. Sapeva che qualsiasi traduzione nella lingua locale sarebbe stata goffa, ma ce la mise davvero tutta. Se l'uomo-spirito di Jake era nelle vicinanze, quella era la lingua che avrebbe capito.
«Il tempo vola, la campana suona a morto, la vita passa, perciò ascolta la mia preghiera.
«La nascita altro non è che l'inizio della morte, perciò ascolta la mia preghiera.
«La morte è senza parola, perciò ascolta la mia parola.»
La sua voce saliva a confondersi nella chiazza di verde e oro. Roland attese che la propria eco si spegnesse, poi riprese. Parlò ora più velocemente.
«Questi è Jake, che ha servito il suo ka e il suo tet. Diciamo il vero.
«Che lo sguardo misericordioso di S'mana guarisca il suo cuore. Diciamo prego.
«Che le braccia di Gan lo sottraggano alle tenebre di questa terra. Diciamo prego.
«Circondalo, Gan, di luce.
«Riempilo Chloe di forza.
«Se ha sete, dagli acqua nella radura.
«Se ha fame, dagli cibo nella radura.
«Che la sua vita su questa terra e il dolore del suo trapasso diventino un sogno per la sua anima viaggiante e che i suoi occhi si posino su tutto ciò che è bello; che trovi gli amici che ha perduto e che tutti coloro di cui chiama il nome chiamino il suo in cambio.
«Questi è Jake, che è vissuto bene, ha amato i suoi cari ed è morto come ka ha decretato.
«Ogni uomo ha diritto a una morte. Questi è Jake. Gli sia resa pace.»
Rimase in ginocchio ancora un momento così, con le mani giunte tra le ginocchia, pensando di non aver compreso il vero potere del cordoglio, né il dolore del rimpianto, prima di quel momento.
Non sopportò di lasciarlo andare.
Ma ancora una volta, quel paradosso crudele: se non lo avesse fatto, il sacrificio sarebbe stato vano.
Aprì gli occhi. «Addio, Jake», disse. «Ti amo, caro.»
Poi calò il cappuccio blu sul viso del ragazzo a proteggerlo dalla pioggia di terra che sarebbe seguita.
11
Quando la fossa fu riempita e coperta di sassi, Roland tornò sulla strada ed esaminò la storia che avevano da raccontare le varie tracce per il semplice motivo che non aveva altro da fare. Quand'ebbe concluso quel passatempo senza senso, si sedette su un tronco caduto. Oy era rimasto davanti alla tomba e Roland capì che lì avrebbe consumato la sua attesa. Avrebbe richiamato il bimbolo quando fosse tornata la signora Tassenbaum, ma sapeva che forse Oy non gli avrebbe risposto; in tal caso, voleva dire che il bimbolo aveva deciso di accompagnare l'amico nella radura. Avrebbe montato di guardia alla tomba di Jake fino a soccombere alla fame (o a qualche predatore). Quella prospettiva acuì il dolore di Roland, ma avrebbe rispettato la decisione di Oy.
Dieci minuti più tardi il bimbolo uscì dal bosco spontaneamente e si sedette di fianco allo stivale sinistro di Roland. «Bravo ragazzo», mormorò Roland accarezzandogli la testa. Oy aveva deciso di vivere. Era una piccola cosa, ma era una cosa buona.
Dieci minuti dopo, un'automobile rosso scuro si avvicinò quasi senza rumore al punto in cui King era stato investito e Jake era rimasto ucciso. Accostò. Roland aprì lo sportello dalla sua parte e montò, reagendo anche questa volta con una smorfia a un dolore fisico che non c'era. Oy saltò tra i suoi piedi senza essere invitato e si accucciò con il naso contro il suo fianco come per dormire.
«Ha fatto quello che doveva per il suo ragazzo?» s'informò la signora Tassenbaum mentre ripartiva.
«Sì. Grazie-sai.»
«Non credo di poter metterci una lapide o qualcosa», commentò lei, «ma potrei tornare a piantarci qualcosa. Ha in mente che cosa potrebbe essergli piaciuto?»
Roland si girò a guardarla e, per la prima volta dalla morte di Jake sorrise. «Sì», rispose. «Una rosa.»
12
Viaggiarono per una ventina di minuti senza parlare. Irene si fermò a un negozietto appena oltre la linea di confine di Bridgton e fece rifornimento alla pompa di benzina: MOBIL, una marca che Roland aveva già incontrato nei suoi vagabondaggi. Quando la donna andò a pagare, alzò gli occhi a los angeles, che attraversavano il cielo sulla loro rotta sicura. Il Sentiero del Vettore, e già più forte, se non era uno scherzo della sua immaginazione. Ma anche se fosse stata solo un'illusione, non aveva importanza, Il Vettore si sarebbe comunque rinforzato, prima o poi. Erano riusciti a salvarlo, sebbene quel successo non gli arrecasse alcun piacere.
Quando uscì dal negozio, Irene Tassenbaum aveva in mano una maglietta senza maniche con la figura di un carro - un vero carro - e una scritta circolare tutt'intorno. Riconobbe la parola HOME, ma niente del resto. Le chiese che cosa diceva la frase.
«BR1DGTON OLD HOME DAYS, 27-30 JULY 1999», lesse lei. «È un festival storico locale, ma non è importante quello che c'è scritto. È importante che le copra il petto. Presto o tardi dovremo fermarci e da queste parti c'è un detto: 'Niente camicia, niente scarpe, niente servizio'. I suoi stivali sono conciati da buttar via, ma è difficile che per quelli qualcuno le sbatta la porta in faccia. Ma a torso nudo? Mmm, non se ne parla proprio. Le troverò qualcosa di meglio appena posso, una maglia con il colletto, e un paio di calzoni decenti, quei jeans sono così sporchi che scommetto che stanno su da soli.» Ingaggiò un breve (ma furioso) dibattito interiore, poi si lanciò: «Deve avere qualcosa come due miliardi di cicatrici. E dico solo della parte di lei che riesco a vedere».
Roland soprassedette. «Hai dei soldi?» le chiese.
«Ho preso trecento dollari quando sono passata da casa a prendere la macchina, e ne avevo trenta o quaranta addosso. Ho anche delle carte di credito, ma il suo amico che non c'è più mi ha detto di usare il più possibile denaro contante. Fino a quando lei non se ne andrà per conto suo, se possibile. Ha detto che potrebbero esserci delle persone che la cercano. 'Uomini bassi' li ha definiti.»
Roland annuì. Sì, ci sarebbero stati gli uomini bassi in giro e dopo tutto quello che lui e li suo ka-tet avevano fatto per guastare i piani del loro signore, sarebbero stati doppiamente accaniti nel cercare di avere la sua testa. Preferibilmente fumante e piantata su un palo. Nonché la testa di sai Tassenbaum, se avessero scoperto che l'aveva aiutato.
«Che cos'altro ti ha detto Jake?» volle sapere.
«Che devo portarla a New York, se me lo avesse domandato. Ha detto che là c'è una porta grazie alla quale può arrivare in un posto che si chiama Faydag.»
«C'è dell'altro?»
«Sì. Ha detto che c'è un altro posto dove potrebbe voler andare prima di usare la porta.» Gli rivolse un timido sguardo obliquo. «C'è?»
Roland ci pensò su, poi confermò con un cenno del capo.
«Ha anche parlato al cane. Sembrava che gli stesse dando degli... ordini? Istruzioni?» Lo guardò dubbiosa. «È possibile?»
Roland riteneva di sì. Alla donna Jake poteva solo chiedere.. Quanto a Oy... be', questo spiegava perché il bimbolo non era rimasto a presidiare la tomba, forse contro la sua volontà.
Per un po' proseguirono in silenzio. La strada che percorrevano sfociava in una di traffico assai più intenso, dove autovetture e autocarri correvano ad alta velocità su molte corsie. Dovettero fermarsi a un casello dove la donna pagò per entrare. Il casellante era un robot con una vaschetta per braccio. Roland pensò di poter dormire, ma quando chiuse gli occhi vide la faccia di Jake. Poi quella di Eddie con l'inutile benda intorno alla testa. Se questo è quello che vedo quando chiudo gli occhi, rifletté, cosa mi succederà mai in sogno?
Riaprì gli occhi e guardò la donna che scendeva per una rampa asfaltata e si immetteva nel flusso intenso senza neppure rallentare. Piegò il collo per guardare dal finestrino dalla sua parte. C'erano le nuvole, los angeles, che viaggiavano sopra di loro, nella medesima direzione. Erano ancora sul Sentiero del Vettore.
13
«Mister? Roland?»
Le era sembrato che si fosse assopito con gli occhi aperti. Ora lui si girò verso di lei da dove si trovava seduto con le mani in grembo, quella integra ripiegata su quella mutilata, a nasconderla. Lei concluse di non aver mai visto nessuno più fuori luogo a bordo di una Mercedes-Benz. O di qualunque altra automobile. Pensò anche di non aver mai visto un uomo dall'aria così stanca.
Ma non è stremato. Credo che non sia nemmeno lontanamente stremato, anche se magari lui pensa il contrario.
«L'animale... Oy?»
«Oy, sì.» Sentendo il suo nome, il bimbolo alzò la testa, ma non lo ripeté come avrebbe fatto solo il giorno prima.
«È un cane? Non è un cane, vero? Non proprio...»
«Non lo è.»
Irene Tassenbaum aprì la bocca e la richiuse. Era tutto difficile, perché il silenzio per compagnia non le veniva naturale. Ed era con un uomo che trovava attraente, nonostante il suo stato di dolore e stanchezza (forse in certa misura proprio per quel motivo). Un ragazzo in fin di vita gli aveva chiesto di portare quell'uomo a New York e in altri posti dove avesse ritenuto di dover andare quando ci fossero arrivati. Aveva detto che il suo amico sapeva di New York ancora meno che di soldi, ed era convinta che fosse vero. Ma era anche convinta che quell'uomo fosse pericoloso. Avrebbe voluto fargli altre domande, ma se poi lui avesse risposto? Capiva che meno sapeva, migliore era la sua possibilità, andato via lui, di rientrare nella vita che aveva condotto fino alle quattro meno un quarto di quel pomeriggio. Rientrarci nel modo fluido con cui si entra in autostrada da una rampa d'accesso. Sarebbe stato quanto di meglio.
Accese la radio e trovò una stazione che trasmetteva Amazing Grace. Quando tornò a guardare il suo strano compagno, vide che fissava il cielo in cui la luce si andava spegnendo... e piangeva. Poi, per caso, abbassò lo sguardo e vide qualcosa di ancor più singolare, qualcosa che la commosse come non le accadeva da quindici anni, quando aveva abortito spontaneamente il suo primo e unico tentativo di avere un figlio.
L'animale, il non-cane, l'Oy... piangeva anche lui.
14
Lasciò la 95 appena entrata nel Massachusetts e si fermò a prendere un paio di camere attigue in un buco che si chiamava Sea Breeze Inn. Non aveva pensato di prendere gli occhiali da guida, quelli che lei chiamava «dell'ano del bacherozzo» (e cioè: «Quando inforco questi cosi posso vedere su per l'ano di un bacherozzo») e in ogni caso non le piaceva guidare di notte. Con o senza gli occhiali dell'ano del bacherozzo, guidare di notte le friggeva i nervi, con l'alto rischio di un'emicrania. Con un'emicrania non sarebbe stata di alcuna utilità per nessuno dei due e il suo Imitrex se ne stava tranquillo e irraggiungibile nell'armadietto dei medicinali a East Stoneham.
«In più», disse a Roland, «se questa Tet Corporation che sta cercando è in palazzo di uffici, non potrà comunque entrarci prima di lunedì.» Probabilmente non era vero. Quello era il genere di individuo che entrava comunque e sempre dove voleva. Non potevi tenerlo fuori. Sospettava che fosse parte del suo fascino per un certo tipo di donna.
Lui però non obiettò al motel. No, non sarebbe uscito a cena con lei, così cercò il più vicino fast food che vendesse qualcosa di commestibile e tornò al motel con un pasto precucinato di KFC. Lo consumarono nella stanza di Roland. Irene preparò a Oy un piatto senza che le fosse stato richiesto. Oy mangiò un solo pezzetto di pollo, reggendolo con destrezza con le zampe anteriori, poi andò in bagno e parve addormentarsi sul tappetino davanti alla vasca.
«Perché lo chiamano Sea Breeze?» domandò Roland. Diversamente da Oy, lui mangiava un po' di tutto, ma senza dare segni di gustarlo. Mangiava come se fosse un lavoro. «Io non sento odore di oceano.»
«Probabilmente si sente quando il vento spira dal quadrante giusto e forte almeno come un uragano», commentò lei. «È quella che chiamiamo una licenza poetica, Roland.»
Lui annuì e lei si stupì che avesse capito. «Bugie belle», tradusse il pistolero.
«Sì, in un certo senso.»
Accese la televisione, pensando di distrarlo, e rimase sconcertata dalla sua reazione (ma a se stessa disse che quello che aveva provato era stato divertimento). Quando lui le spiegò di non poterla vedere, non seppe come prendere quell'affermazione; il suo primo pensiero fu che fosse una critica indiretta e tevvibilmente intellettuale in riferimento alla TV. Poi pensò che forse stesse alludendo (in un modo altrettanto indiretto) al suo cordoglio, al suo stato di lutto. Solo quando lui aggiunse che sentiva delle voci, sì, ma vedeva solo linee che gli facevano lacrimare gli occhi, si rese conto che la sua affermazione andava presa alla lettera: non vedeva le immagini sullo schermo. Né la replica di Roseanne, né l'inserto commerciale dell'AB-Flex, né i mezzibusti del notiziario locale. Aspettò di ascoltare il servizio su Stephen King (trasportato da un elicottero della LifeFlight al Central Maine General di Lewiston, dove un immediato intervento chirurgico gli aveva probabilmente salvato la gamba destra - condizioni generali discrete, altre operazioni in vista, previsto un recupero lento e incerto), poi spense.
Radunò i rifiuti - ne rimaneva sempre una tale montagna con i pasti di KFC - augurò a Roland una titubante buonanotte (che lui ricambiò con un atteggiamento distratto da non-sono-veramente-qui che la rese nervosa e triste), e si ritirò in camera sua. Lì guardò per un'ora un vecchio film in cui Yul Brinner interpretava un cowboy robot ammattito prima di spegnere e andare in bagno a lavarsi i denti. Fu lì che si rese conto di aver dimenticato - ma ovvio, pupattola! - lo spazzolino. Rimediò come meglio poteva con un dito, poi si sdraiò sul letto in reggiseno e mutandine (non aveva nemmeno la camicia da notte). Trascorse un'ora così, rendendosi conto che ascoltava eventuali rumori da dietro la parete sottile come carta velina, aspettandone uno in particolare: la deflagrazione della pistola che opportunamente avrebbe lasciato in macchina. Quell'unico colpo assordante che aveva indicato che aveva posto fine alle sue miserie nella maniera più diretta.
Quando non poté più sopportare il silenzio dall'altra parte della parete, si rivestì e uscì a guardare le stelle. Lì, seduto sul ciglio del marciapiede, trovò Roland, con il non-cane al fianco. Avrebbe voluto chiedergli come era uscito dalla stanza senza che lei se ne accorgesse (i muri erano così sottili e lei aveva avuto l'orecchio così teso), ma desistette. Gli chiese invece che cosa facesse lì fuori e si scoprì impreparata sia alla sua risposta, sia al totale candore del volto che girò verso di lei. Si era aspettata una patina di convenzionalità, un accenno di convenevoli, invece niente. La sua franchezza l'atterrì.
«Ho paura di addormentarmi», disse. «Ho paura che vengano da me i miei amici morti e che vederli mi uccida.»
Lei lo fissò in quella luce rimescolata: quella che proveniva dalla sua stanza e l'orribile spietato bagliore da Halloween delle lampade al sodio del parcheggio. Il cuore le batteva abbastanza forte da farle rimbombare tutto il petto, ma quando parlò, riuscì a mantenere la voce abbastanza calma: «Servirebbe se mi sdraiassi con te?»
Lui rifletté, quindi annuì. «Credo di sì.»
Lo prese per mano ed entrarono nella camera che aveva preso per lui. Roland si spogliò senza imbarazzo e lei guardò, colpita e impaurita, le cicatrici che gli solcavano la parte superiore del corpo, qua e là sovrapponendosi: la traccia rossa di una coltellata su un bicipite, la striatura lattiginosa di un'ustione sull'altro, le croci bianche di frustate tra e sopra le scapole, tre fossette profonde che potevano essere solo fori di proiettile. E naturalmente c'erano le dita mancanti della mano destra. Era incuriosita, ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di interrogarlo su quel conto.
Cominciò a spogliarsi anche lei, esitò quando giunse alla biancheria intima, poi si tolse il reggiseno. Il suo seno era cadente e anche lei aveva una cicatrice del suo, conseguenza di una nodulectomia invece che di una pallottola. E allora? Non era mai stata una modella di Victoria's Secret nemmeno nel fiore degli anni. E anche nel fiore degli anni non aveva mai commesso l'errore di considerarsi tette e culo applicati a un autorespiratore. Né aveva mai permesso ad altri - marito compreso - di commettere lo stesso errore.
Tenne però le mutandine - se si fosse rifilata i peli del pube, magari se le sarebbe tolte. Se avesse saputo, alzandosi quella mattina, che sarebbe andata a letto con uno sconosciuto nella stanza di un alberghetto di terza categoria dove in bagno, sul tappetino davanti alla vasca, dormiva un animale mai visto, si sarebbe preparata di conseguenza. E naturalmente avrebbe preso anche uno spazzolino da denti e un tubetto di dentifricio.
Quando lui le passò le labbra intorno al corpo, trasalì e s'irrigidì. Poi cominciò a rilassarsi, ma molto lentamente. Sentì i suoi fianchi che le aderivano alle natiche e avvertì il peso considerevole dei suoi genitali, ma evidentemente stava cercando solo conforto da lei; aveva il pene flaccido.
Le prese il seno sinistro e le passò il dito nel solco della ferita rimasta dalla nodulectomia. «Cos'è questa?» chiese.
«Be'», rispose lei (ora la sua voce non era più uniforme), «secondo il mio dottore, nel giro di cinque anni sarebbe diventato un cancro. Così l'abbiamo tolto prima che potesse... non so, di preciso... il processo di metastasi viene più tardi, se viene.»
«Prima che potesse fiorire?» domandò lui.
«Sì. Giusto. Bene.» Ora aveva il capezzolo duro come una pietruzza e sicuramente lui non poteva evitare di sentirlo. Oh, era tutto così strano.
«Perché ti batte così forte il cuore?» chiese Roland. «Ti faccio paura?»
«Io... sì.»
«Non aver paura», disse lui. «Ho finito di uccidere.» Una lunga pausa nell'oscurità. Sull'autostrada si sentiva il rombo ovattato del traffico.
«Per ora», aggiunse.
«Oh», fece lei con un filo di voce. «Meno male.»
La mano sul suo seno. Il fiato sul suo collo. Dopo un tempo indeterminato che poteva essere stato un'ora o solo cinque minuti, il respiro di lui si allungò e lei capì che si era addormentato. Era contenta e insieme delusa. Qualche minuto dopo si addormentò anche lei e fu il riposo più corroborante che avesse avuto da anni. L'indomani, quando si svegliò, erano le otto del mattino, e lui era nudo alla finestra, a guardare attraverso lo spiraglio che aveva aperto nelle tende con un dito.
«Hai dormito?» gli chiese.
«Un po'. Ora andiamo?»
15
Avrebbero potuto essere a Manhattan per le tre del pomeriggio ed entrare in città di domenica sarebbe stato di gran lunga più agevole che durante l'ora di punta del lunedì mattina, ma gli alberghi di New York erano cari e alloggiando in una stanza sola non avrebbero potuto fare a meno di ricorrere a una carta di credito. Si fermarono così a un Motel 6 a Harwick, Connecticut. Prese solo una singola e quella notte lui le fece l'amore. Non proprio perché ne avesse voglia, ma perché capiva che era quello che voleva lei. Forse ciò di cui lei aveva bisogno.
Fu straordinario, sebbene non sarebbe stata capace di spiegare perché; a dispetto di tutte quelle cicatrici che sentiva sotto le dita, alcune ruvide, altre lisce, ebbe la sensazione di fare l'amore con un sogno. E quella notte in effetti sognò. Era un campo pieno di rose, quello che sognò, in fondo al quale si ergeva una Torre gigantesca di pietre scure come ardesia. A una certa altezza brillavano lampade rosse... solo che aveva il sospetto che non fossero affatto lampade, ma occhi.